Nel calderone della sezione Festa Mobile del Torino Film Festival 2017 non è difficile imbattersi in pellicole smaccatamente mainstream, perfettamente calibrate su gusti, dinamiche psicologiche e attese del grande pubblico: emozioni calcolate col bilancino, accompagnate immancabilmente da un brano musicale che suggerisce la risata o enfatizza il dramma, la tragedia, strappandoci fino all’ultima lacrima. Meccanismi che l’industria dei sogni ha decodificato da decenni e decenni, applicando i suoi consolidati schemi a commedie sentimentali, film d’avventura, melodrammi e tutto quel che segue. Persino – o forse soprattutto – a pellicole d’impegno politico e civile. Formule spesso guardate con sospetto da buona parte della critica, ma che sono senza dubbio una delle colonne portanti dell’industria cinematografica, in primis quella hollywoodiana.
NOMINATION
Non devono quindi stupire gli stratagemmi e le scorciatoie narrative imboccate da A Taxi Driver di Jang Hun, pellicola destinata al grande pubblico, scelta per rappresentare il cinema sudcoreano nella corsa all’Oscar per il miglior film straniero: una sorta di cerchio che si chiude, visti i molteplici punti di contatto tra la New Wave sudcoreana e il cinema statunitense.
È infatti un film solido, ben scritto e ottimamente recitato A Taxi Driver, sorretto da una confezione tecnico-artistica impeccabile: programmaticamente prevedibile, facilmente leggibile, veicola con mestiere lacrime e risate. Fin qui sembrerebbe una classica produzione pensata e costruita pezzo per pezzo per scalare il box office, strizzando l’occhio anche al mercato internazionale. In parte è effettivamente così, ma il tema trattato spariglia le carte e le semplici conclusioni sul cinema mainstream: siamo nel 1980, nella placida Seoul, e un tassista un po’ arruffone coglie al volo l’opportunità di portare un facoltoso straniero col suo taxi fino a Gwangju. Soldi facili. I toni iniziali sono leggeri, da commedia, nonostante qualche contrappunto amaro – le difficoltà economiche del protagonista, il corpulento e bonaccione Kim Man-seob (Song Kang-ho, star dal talento cristallino). Si gioca sulle incomprensioni linguistiche, con l’inglese stentato di Man-seob che arranca di fronte alla scorrevolezza e alla fretta di Jürgen Hinzpeter (Thomas Kretschmann), giornalista tedesco che vuole filmare i disordini di Gwangju. Contrapposizioni da buddy movie, una sorta di La strana coppia on the road.
IL COLORE VERDE
La situazione, come i soldi, non è però facile. Jang Hun non abbandona mai il canovaccio da grande pubblico, non teme la retorica, anzi la cerca, la enfatizza, proseguendo diritto per la propria strada. Come il taxi verde di Man-seob, così visibile e facilmente riconoscibile, allegro come il volto pacioso del suo conducente. Il punto d’arrivo di Jang Hun, di A Taxi Driver e del taxi verde è però Gwangju, e allora tutto cambia, acquistando un senso diverso: il meccanismo narrativo un po’ ricattatorio, perfettamente oliato, è un veicolo straordinariamente efficace per tornare su una delle pagine più nere della storia sudcoreana. Un massacro. Un massacro vero e proprio: centinaia e centinaia di morti, studenti universitari e comuni cittadini abbattuti dai militari, pestati a sangue, brutalmente uccisi. Corpi seminudi ammassati sui camion; rastrellamenti di infiltrati e corpi speciali; un insabbiamento preventivo di qualsiasi notizia. Abbandonata al proprio destino, Gwangju è stata teatro di un’incalcolabile atrocità pianificata dal dittatore Chun Doo-hwan – condannato a morte nel 1996, graziato dal presidente Kim Young-sam, eletto democraticamente.
Il punto d’arrivo del taxi verde è l’inferno sulla terra, è la negazione delle più basilari forme di democrazia e convivenza, è il volto demoniaco della dittatura. In questo senso, soprattutto per un pubblico all’oscuro della storia sudcoreana, A Taxi Driver è persino «ingannevole»: dopo aver accompagnato mano nella mano lo spettatore fino a Gwangju, lo lascia da solo in mezzo alle strade, ai fumogeni, ai proiettili che fischiano all’impazzata, ai corpi che cadono a terra uno dopo l’altro. Da solo contro il Mostro, contro la Storia che si ripete e che ancora una volta ci inghiotte.
Il viaggio a Gwangju non ci racconta solo dei lati oscuri della Storia passata, della forza produttiva dell’industria cinematografica sudcoreana e della scelta ammirevole di proporre un film così doloroso agli Oscar, ma ci suggerisce un confronto con la nostra Storia, col nostro cinema e con le nostre scelte politiche e culturali: mentre la Corea del Sud cerca e trova una vastissima visibilità per A Taxi Driver, noi dobbiamo ancora fare i conti con le difficoltà produttive che ebbe Diaz: Don’t Clean Up This Blood di Daniele Vicari, con la sua attuale scarsissima visibilità. Il cinema sudcoreano degli ultimi anni può contare su pellicole che non fanno sconti come The Road Taken di Hong Ki-Seon, National Security di Chung Ji-young, Peppermint Candy di Lee Chang-dong, The Front Line di Jang Hun; il cinema italiano nicchia, attende, si nasconde, e quando ci prova trova ostacoli spesso insormontabili. Anche censure preventive. Forse dovremmo ricalibrare concetti come mainstream e regime. In attesa del nostro taxi verde.