Ci sono gli uomini e ci sono le ideologie. Ci sono le tattiche e ci sono i conti dello Stato. Ci sono i partiti-marmellata e ci sono i guardiani dell’ortodossia neoliberista a Bruxelles.

Quindi le consultazioni iniziate da Mattarella dovrebbero essere guidate passo passo dall’arcangelo Gabriele per arrivare a un risultato positivo, cioè un nuovo governo che cancelli gli orrori realizzati da Salvini, Di Maio e Conte negli ultimi 14 mesi.

Primo problema: gli uomini. Zingaretti si trova un po’ nella posizione del leader laburista inglese Jeremy Corbyn dopo la sua elezione nel settembre 2015: segretario di un partito di cui non controlla i gruppi parlamentari, scelti con cura da Tony Blair.

Il giorno dopo la sua elezione, Corbyn si sentì dire dal capogruppo Charlie Falconer: «Noi non siamo d’accordo sulla tua linea sui sottomarini nucleari, sull’Unione Europea, sulla politica economica, non siamo d’accordo su niente».

Ora, in confronto a Zingaretti, Corbyn ha il carisma di Alessandro Magno, o quanto meno una tempra politica sufficiente per respingere due tentativi di golpe interni organizzati dalla destra del partito.

Il discorso di martedì in Senato da parte di Matteo Renzi era chiaramente rivolto prima di tutto ai parlamentari del PD, con un messaggio anch’esso chiaro: «Qui il vero leader sono io» e non sarà certo la mozione della Direzione approvata ieri all’unanimità a cambiare le cose.

Sull’altro fronte, il problema degli uomini è ancora più acuto: bastava guardare la faccia di Di Maio, che sembrava aver inghiottito un manico di scopa, per capire il suo entusiasmo. Di Maio non voleva la crisi, men che meno voleva che Conte bruciasse i vascelli alle sue spalle, sbeffeggiando i tentativi di ricucitura di un Salvini in stato confusionale. Il fallimento del governo gialloverde è prima di tutto il suo fallimento personale, il disastro di un «capo politico» che ha preso un partito al 33% e lo ha portato (secondo i riservatissimi sondaggi interni) al 7-8% in un anno mezzo.

Se Di Maio sospetta che Conte abbia calcato la mano su Salvini per ritagliarsi un ruolo in futuro come candidato premier del M5S, fa bene: la leadership di «Giggino» all’interno del movimento ha perso ogni credibilità, tanto più dopo essere stato commissariato dal ritorno precipitoso di Grillo per salvare il salvabile.

Se ci saranno elezioni a breve non saranno Di Battista, Toninelli, Bonafede o la Taverna a poter resuscitare i grillini, che hanno mostrato di essere drammaticamente privi di classe dirigente.

Quando il Pci aveva superato il 30% dei voti, negli anni Settanta e negli anni Ottanta, aveva 2 milioni di iscritti, ovvero centinaia di parlamentari e di consiglieri regionali e comunali, migliaia di sindaci e di intellettuali coinvolti nella riflessione del partito.

Il M5S non ha nulla di tutto questo.

Secondo, e più strutturale, problema: la socialdemocrazia europea è uno zombie che cammina (e fa danni, come tutti i morti-viventi). Da una parte ci sono i neoliberisti autoritari che hanno adottato un’etichetta «progressista» per pure ragioni di opportunità e di spazio politico, come Macron, Sanchez e Renzi, dall’altra ci sono i nostalgici dei vecchi partiti laburisti e socialisti come Corbyn, Mélenchon e Zingaretti, che pensano di poter resuscitare le politiche degli anni Sessanta e Settanta abbandonate dai tempi di Tony Blair in Gran Bretagna e François Hollande in Francia.

Peccato non sia possibile: oggi il trasferimento di gran parte delle decisioni fiscali, economiche e finanziarie in sedi decisionali non democraticamente controllabili, in particolare l’Unione Europea, rende straordinariamente difficile mettere insieme il diavolo e l’acqua santa, cioè una politica favorevole ai lavoratori e il rispetto dei vincoli di bilancio. Se un ipotetico governo «giallorosso» dovesse nascere potrebbe forse rinunciare a progetti di tassazione regressiva come la cosiddetta flat tax di Salvini ma dovrebbe comunque mantenere un sostanzioso avanzo primario per rassicurare i mercati ed evitare una procedura di infrazione da parte di Bruxelles.

Ovvero, dovrebbe continuare a fare ciò che hanno fatto i governi negli ultimi 25 anni: mantenere stabili (o in aumento) le tasse riducendo i servizi, in particolare quelli più costosi, come sanità e scuola. Una prospettiva poco allettante per poi andare ad elezioni comunque.