È il mantra di questi anni: tanti pianisti tecnicamente eccellenti o persino strabilianti ma così poche personalità. Poi due serate romane bastano per incrinare questo pregiudizio o forse almeno a rivelare che esistono eccezioni pronte a confermare la regola. Sono stati due concerti piuttosto eclettici quelli proposti alla Istituzione Universitaria dei Concerti da Fazil Say e alla Stagione cameristica di Santa Cecilia da Maurizio Baglini, il 23 e 24 gennaio scorsi.

Tutto il percorso artistico di Fazil Say si è sviluppato in equilibro fluttuante fra estro personalissimo e indiscutibili qualità tecnico-interpretative, sfociando quasi inevitabilmente nell’ulteriore parallela scelta da parte del pianista turco di comporre una parte delle musiche che suona. Nel recital romano, che ci ricorda i numerosi meriti della IUC nel proporre i pianisti più interessanti al pubblico della capitale (da poco è passato Mustonen, un duo con Isserlis) , Say si è presentato in apertura con tre notturni di Chopin splendidi, dal suono tornito e avvolgente. Un’intensità era percepibile quasi fisicamente, come la misteriosa, invisibile figura a pochi metri dal pianoforte cui il pianista sembrava rivolgere ogni sua tensione e emozione, specie durante l’Appassionata di Beethoven: un’interpretazione contrastatissima e inusuale fra battaglie, esplosioni sonore e soste dolorose. Le note liquide delle Sei Gnossienes di Satie salendo verso l’affresco di Sironi si incollavano alle figure svelandone le non eccessivamente segrete corrispondenze con la pittura di Puvis de Chavannes.

Figure si che poi facevano antichissime e dolenti durante l’esecuzione di Black Earth , il più riuscito e bello dei due brani scritti e suonati da Say: un cupo, salmodiante pedale su cui si levavano le ieratiche frasi suonate dentro la cordiera, trasformata in una sorta di saz turco di immane potenza; l’altro era il più articolato e rutilante Hommage a Ataturk , in prima italiana. Ancora un notturno chopiniano per chiudere fra gli applausi di un pubblico foltissimo e estremamente soddisfatto.

Nel nome di Franz Liszt Maurizio Baglini ha rinnovato per la stagione cameristica di Santa Cecilia il sotterraneo ma saldo legame fra sfida sportiva ( la gara di resistenza: il pianista pisano ha un buon record come maratoneta dilettante in Europa e Oltreoceano ) e recital pianistico. Liszt, che aveva trascritto la Nona per due pianoforti nel 1851, cedette alle preghiere del suo editore per completare la serie delle trascrizioni delle sinfonie per pianoforte solo nel 1863, aggiungendo infine anche la nona sinfonia: una realizzazione estrema sotto più punti di vista, sia per straordinaria capacità di condensare le grandiose architetture musicali beethoveniane e i giochi contrappuntistici dei singoli movimenti, sia per inaudita difficoltà tecnica.

Baglini ha proposto questa pagina micidiale anche per tenuta e concentrazione nella versione con il coro, che il pianista ha già eseguito decine di volte nelle sale da concerto di mezzo mondo. Sfida nella sfida, il coro dell’Accademia, preparato e diretto da Ciro Visco, ha raggiunto Baglini nell’ultimo movimento in compagine completa – l’originale lisztiano è pensato per un coro di sedici elementi – fornendo anche i quattro solisti ( Patrizia Robetti, Simonetta Pelacchi, Anselmo Fabiani, Andrea D’Amelio,).

Un’avventura musicale emozionante attraverso una partitura che non di sfida l’ascoltatore quanto il pianista: Baglini ha sostenuto la prova mostrando il metallo delle dita; oltre  a mostrare gli inevitabili muscoli  è riuscito a non rinunciare a tratti di flessibilità e gusto, sia nell’oasi elegiaca del terzo movimento che nell’insidiosa prova di sincronia con il coro, riuscita alla fine senza significativi incidenti. Applausi per il coro e ovazioni per l’intrepido pianista che ha anche concesso due bis, una sonata di Scarlatti e la radiosa trascrizione del corale bachiano “Ich ruf zu dir Herr” di Ferruccio Busoni.

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