A Sabratha e a Bengazi non c’erano solo forze libiche. C’erano anche truppe francesi. A rivelarlo è il quotidiano Le Monde: unità speciali di Parigi, in Libia da mesi, avrebbero partecipato alla controffensiva dell’esercito del parlamento di Tobruk a Bengasi e alla battaglia a Sabratha contro l’Isis. Secondo fonti locali, i commando francesi sarebbero di stanza alla base di Benina, est di Bengasi, dove si trovano anche le truppe fedeli al generale Haftar, leader dell’esercito di Tobruk.

Martedì la bellissima città alle porte di Tripoli, dove antiche rovine romane si affacciano sulla costa mediterranea, ha rischiato di finire in mano islamista: i miliziani del “califfo” hanno attaccato a pochi giorni dal raid Usa contro un presunto campo islamista. Una stazione di polizia è stata occupata, diventando teatro di un massacro: 12 poliziotti sono stati decapitati. I loro corpi sono stati trovati più tardi, quando le forze libiche hanno ricacciato indietro l’offensiva.

Nelle stesse ore si combatteva a Bengasi, capitale ribelle della Cirenaica. Le forze armate di Tobruk – guidate dal generale Haftar e sostenute, dice Le Monde, dai soldati francesi – hanno liberato il quartiere di al-Laithi, l’ultimo ancora in mano ad Ansar al-Sharia, gruppo salafita che ha giurato fedeltà al “califfato”.

La notizia dell’attività militare francese è l’ultimo tassello di un mosaico che da mesi ormai svela il prossimo intervento occidentale in Libia. La Raf britannica vola in missioni di ricognizione, gli Stati uniti lanciano raid e strappano il sì di Roma all’uso di Sigonella per il decollo dei propri droni, la Francia manda i commando a combattere. E l’Italia, pur continuando a negare di volere un intervento senza un esecutivo di unità nazionale, si prepara a mettersi a capo dell’impresa occidentale per recuperare il terreno (economico) perduto con la caduta dell’amico Gheddafi.

Nelle stanze della diplomazia mondiale si parla già di una coalizione internazionale sotto la guida di Roma in Tripolitania, Londra in Cirenaica e Parigi in Fezzan: 5mila uomini per difendere infrastrutture e giacimenti petroliferi e coadiuvare i raid aerei. Su un simile piano si fonda il via libera italiano ai droni Usa, fondamentale alla riuscita dell’impresa: le basi italiane sono indispensabili per la vicinanza alle coste libiche. E se il governo precisa che ogni raid sarà valutato caso per caso e quindi approvato o bocciato da Roma, gli aerei senza pilota lanciano dal cielo la sempre più concreta prospettiva di un’operazione via terra.

Così si presenta la nuova missione, copia carbone di quella di 5 anni fa con cui il colonnello Gheddafi fu deposto insieme al sistema istituzionale libico. Stavolta il mostro non è il leader della Jamahiriya, ma lo Stato Islamico. Sullo sfondo le ingenti ricchezze petrolifere libiche, minacciate dalla presenza del braccio locale dell’Isis, e la battaglia della Ue all’indesiderata immigrazione verso le proprie coste.

Ma una simile operazione, se partirà, rischia di far esplodere definitivamente le divisioni interne alla Libia, un paese frammentato in poteri e autorità diverse, due parlamenti e una galassia di milizie armate e tribali, che non accoglieranno a braccia aperte una nuova offensiva straniera.

Se l’Isis utilizza la facile propaganda della crociata europea e minaccia in particolare l’Italia sventolando il fantasma-simbolo di Omar al-Mukhtar (leader della resistenza all’occupazione fascista), a preoccupare è la possibile reazione dei libici: contrari ad un intervento che spalencherebbe del tutto le porte dell’inferno, potrebbero preferire la narrativa di gruppi estremisti a quella di un palese neocolonialismo europeo.

A frenare per ora l’interventismo europeo e statunitense è lo stallo nell’implementazione dell’accordo tra i parlamenti di Tripoli e Tobruk siglato a dicembre: il governo di unità nazionale, da cui la comunità internazionale pretende di ricevere il permesso alla guerra, non è stato ancora formato.

Ai due precedenti fallimenti, figli dell’ostruzionismo del governo di Tobruk (quello dei due riconosciuto come legittimo dall’Occidente), è seguito un nuovo stop: martedì ha rinviato il voto per la mancanza del quorum. Un boicottaggio dovuto al disaccordo tra chi accetta la proposta di esecutivo del premier designato al-Sarraj e chi la rigetta? Secondo la metà dei parlamentari no: si è trattato di intimidazione. In una petizione presentata ieri da 100 dei 176 parlamentari di Tobruk, il voto non si è tenuto a causa di minacce esterne.

Dietro potrebbe esserci l’ostracismo del generale Haftar. Che voglia un ministero non è un segreto. Allo stesso tempo, forte del potere derivante dal controllo di un vero e proprio esercito, prova a dettare l’agenda su indicazione del suo più importante sponsor, l’Egitto di al-Sisi.