Con la tensione fra Corea del Nord e Stati uniti alle stelle e con la visita del «baby adulto» Mike Pence in Giappone, così il leggendario regista trash John Waters ha definito il vice presidente americano in una recente intervista, ritorna in superficie e a far parte del discorso politico internazionale la presenza delle basi americane nell’arcipelago, specialmente quelle in Okinawa. In realtà la «battaglia» tra la popolazione della zona da una parte e le autorità del governo centrale giapponese dall’altra, non ha mai smesso di infuriare. Sono più di 50 mila i militari americani di stanza nel territorio giapponese con almeno otto grandi basi aeree, senza contare tutte le altre stutture e complessi collaterali, ma Okinawa, pur rappresentando solo meno dell’un per cento del territorio giapponese, ospita più del sessanta per cento delle basi a stelle e strisce. A questo si aggiungano le problematiche legate alla storia della zona, mai veramente parte del Giappone e teatro di alcune delle battaglie più cruente avvenute durante la seconda guerra mondiale e si avrà il quadro di una resistenza continua,fin dal 1972, anno in cui il territorio di Okinawa, l’isola omonima e le isole Ryukyu, fu «restituito» al Giappone dagli Usa.

Proprio in queste settimane, dopo ritardi e posponimenti ottenuti dal governatore di Okinawa, dovrebbe cominciare il processo di rilocazione dell’attuale base di Futenma a Henoko, con la conseguente distruzione del delicato ecosistema marino dell’omonima baia. Le proteste si annunciano veementi e data anche la complicata situazione geopolitica nella vicina penisola coreana, non si sa davvero cosa riserverà il futuro prossimo. Artisti e letterati hanno raccontato e cercato in molti modi di distruggere la narrazione dominante su e attorno Okinawa, da documentari a romanzi fino a mostre fotografiche e pittura, la resistenza culturale prima che politica ha trovato davvero linfa vitale in queste espressioni. Merita una menzione particolare il lavoro fatto da Chikako Yamashiro, artista nata a Okinawa che nell’ultimo decennio attraverso video installazioni, fotografie e film sperimentali ha cercato di presentare la complessità della situazione, senza mai cadere in facili dicotomie. È del 2004 la sua prima opera, I Like Okinawa Sweet dove vediamo la stessa donna mangiare un gelato davanti ad una base americana, una performance/video in cui ad essere criticata non è tanto la presenza delle basi americane ma soprattutto l’esotismo con cui viene venduta e consumata la cultura di Okinawa dai giapponesi mainland ma anche dagli stessi abitanti delle isole che di questo turismo vivono.

L’artista allora usa il suo corpo di donna per incarnare la complessità e le contraddizioni della contemporaneità della sua terra, toccando anche il gap generazionale come in Your voice came out through my throat, video istallazione presentata anche in Italia lo scorso marzo a La Spezia. Sette minuti dove vediamo Yamashiro raccontare le memorie della battaglia di Okinawa del 1945 dove perì un terzo della popolazione dell’isola, ma la voce non è la sua, bensì quella di un’anziana donna che le atrocità, violenze e stupri da parte dell’esercito giapponese verso gli abitanti del loco, le ha vissute personalmente. Dopo A Woman of the Butcher Shop del 2012, il suo lavoro più recente Mud man estende la sua ricerca e sovrappone la storia di Okinawa con quella simile dell’isola di Jeju in Corea del Sud, territorio teatro di conquiste giapponesi e purghe anticoministe, connettendo quindi le problematiche identitarie e storiche dell’arcipelago con quelle della vicina penisola.

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