La voce della Lupa grida nelle piazze che la scuola deve cambiare. Deve cambiare per tanti aspetti. Uno dei più importanti è il riconoscimento dell’identità di genere. Esiste un percorso, in Italia, per arrivare a questo obiettivo. Si chiama carriera alias. È una soluzione che permette agli studenti transgender – che quindi non si riconoscono nel genere loro assegnato alla nascita, quello del sesso biologico – di vedere riconosciuta la propria identità di genere. «È un profilo burocratico alternativo e temporaneo riservato agli/le student* transgender – spiega il sito Gay.it – che consente innanzitutto di sostituire il nome anagrafico, cioè quello scritto nei documenti ufficiali e dato alla nascita in base al sesso biologico, con quello che la persona transgender ha adottato». Ma c’è di più. Non è soltanto il nome che conta: chiunque operi nel contesto scolastico – insegnanti, studenti, personale ausiliario – è tenuto per regolamento a comportamenti che confermino l’identità di genere scelta dalle persone transgender.

In Italia al momento sono soltanto 56 le scuole che hanno adottato ufficialmente con una delibera del consiglio di istituto la carriera Alias. Un po’ meglio va nelle università, dove gli atenei che hanno fatto la scelta di riconoscere l’identità di genere delle persone transgender sono 32 su 68; le prime sono state, nel 2003, Torino, la Federico II di Napoli e Bologna. L’ultima Venezia nel 2018. Tra le scuole superiori, invece, la new entry è l’istituto tecnico Francesco Ciusa di Nuoro, prima scuola in Sardegna a seguire questa strada.

«D’ora in poi – ha detto la dirigente Silvia Meloni al quotidiano La Nuova Sardegna che ha dato la notizia – ciascuno dei nostri studenti in transizione di genere potrà sentirsi chiamare con il nome che ha scelto. Il nome al quale sente di appartenere, quello che sente nel profondo, per un preciso bisogno identitario. Potrà pure firmare i compiti in classe con quel nome o presentarsi all’interrogazione anche se all’anagrafe risulta con un altro. È stato un percorso di arricchimento per tutti, un risultato arrivato dopo due anni e mezzo di lavoro. Lo dovevamo ai nostri ragazzi, ai nostri studenti. Nessuno di loro sarà mai solo nel suo percorso di transizione verso l’identità nella quale si riconosce».

È una battaglia importante, per il riconoscimento di diritti fondamentali e insieme per ridurre il disagio e la sofferenza psicologica, anche grave, che la mancata conferma sociale di genere comporta, specie in realtà come quelle scolastiche e in un’età delicatissima com’è l’adolescenza. «Le scuole – spiega Maria Paola Curreli, del consiglio direttivo della Agedo, l’associazione di genitori, parenti e amici di persone Lgbt+ nata nel 1993 – fanno i conti quotidianamente con il bisogno di garantire benessere e sicurezza a tutte e a tutti coloro che nelle aule trascorrono il loro tempo da studenti. Non per ogni alunno è facile star bene a scuola. Certamente non per chi, come le persone transgender, vive tutti i giorni la sensazione di non essere conforme ad aspettative sociali e a ruoli stereotipati, rigidamente stabiliti e interiorizzati, che non tengono conto delle differenze individuali riguardanti anche l’identità di genere».

Che non sia facile far passare la scelta giusta lo dimostra il caso di Geremia, lo studente transgender di Pisa che lo scorso novembre è riuscito a far valere i suoi diritti soltanto dopo occupazioni e proteste che hanno coinvolto tutti gli studenti della sua scuola e anche molti insegnanti. Geremia potrà essere riconosciuto per quello che è: un ragazzo. Anche se sulla carta d’identità c’è scritto un nome di battesimo femminile. Non tutti, però, hanno la sua stessa fortuna. «Troppo spesso – dice Maria Paola Curreli – la scuola è un luogo dove si sperimentano l’esclusione, il rifiuto, la violenza. I dati ci raccontano una realtà agghiacciante: gli studenti transgender hanno il più elevato tasso di abbandono scolastico e il non riconoscersi nella norma che la famiglia e la scuola si aspettano causa sofferenze e disagi, che possono manifestarsi con depressioni, autolesionismo, isolamento sociale e suicidi. Una situazione che deve finire».