Perfino un proverbio popolare, anzi una sua parte, può diventare a Monticchiello un titolo indicativo e rivelatore, già pieno del significato del racconto e del giudizio fermamente negativo sull’avvenimento che l’ha generato. Mal comune non sostiene affatto, a differenza del proverbio, che quella condivisione possa suscitare una pur parziale soddisfazione, che anzi entrambe le parti in causa rigettano con grande convinzione il fenomeno che ritengono ingiustificato e nocivo. Oggetto del contendere, l’accorpamento in un unico comune di due centri, e dei loro abitanti, se questi non raggiungono il numero stabilito dall’amministrazione centrale. Sembrerebbe un puro fatto formale o numerico, ma il viluppo di ricadute a livello di famiglie, piccole proprietà, rapporti e generazioni, fa esclamare al personaggio di una matura signora un’ode negativa al fatidico algoritmo che determinerà vite, destini e perimetrazioni per diverse migliaia di vite umane. Così dura e circostanziata come non se n’è udito neanche davanti a quello che ha modificato un paio d’anni fa il sistema italiano dello spettacolo dal vivo.

Monticchiello e il suo Teatro povero (raggruppa la quasi totalità dei suoi 300 abitanti invernali), possono compiere anche miracoli linguistici come questo. E non perché la manifestazione abbia passato il mezzo secolo: è vero, i padri fondatori di questa esperienza se ne sono andati in punta di piedi uno a uno, da Rino ad Alpo al maestro Nisi. Ma ci sono i loro figli e nipoti ben determinati a proseguire l’esperienza, e c’è fortunatamente Andrea Cresti che continua a tenere la barra di quella che non è solo regia, ma vera creazione poetica collettiva.

Qualche volto nuovo c’è in effetti in scena, ma lo spirito è ancora perfettamente identitario. L’argomento è appunto quello della razionalizzazione delle realtà locali, un dibattito che potrebbe affogare in un anonimo e poco interessante burocratese. Se dà calore, è perché il racconto di Monticchiello parte come sempre da problemi e sentimenti e necessità concretissime, come il grande teatro ha sempre fatto fin dall’antichità. E che in questo angolo privilegiato d’Italia appaiono più netti e precisi, «ingenui» nell’apparenza, implacabili nella sostanza.

La commozione si alterna al sorriso e alla battuta, ma alla fine è la coscienza di ogni spettatore ad essersi allargata. Prevalendo perfino sulle attrattive di questo borgo magico, dai panorami alla tavola dei mitici pici. È proprio la «costruzione», e la crescita, di ogni spettacolo che andrebbero mostrate a chi vuole avvicinarsi a questo mestiere e questo linguaggio. Più di qualsiasi suggestione «accademica» destinata a restare solo Mal comune, con zero gaudio.