L’Italia è tra gli otto Paesi Ue sotto procedura per infrazione ai limiti per l’inquinamento atmosferico: nel 2017 in 39 capoluoghi di provincia è stato superato il limite annuale di 35 giorni per le polveri sottili. Senza interventi strutturali seri arriveranno le sanzioni. E se Roma annaspa nello smog, Milano non sorride: la città di Pisapia e Sala (sette anni di giunta di centrosinistra) occupa l’ottavo posto nella classifica per l’aria peggiore, a dimostrare che non è necessario avere come sindaco la moglie di un petroliere per soffocare tra i gas di scarico.

In regione l’inquinamento da trasporto è al 27%, ma a Milano prevale, con il 43% dello smog prodotto delle emissioni primarie di pm10 (motori diesel, usura freni, pneumatici e strade). È evidente che una maggior diffusione della bicicletta darebbe un contributo significativo a migliorare la qualità dell’aria. E se è vero che le piste ciclabili crescono (a livello nazionale +50% dal 2008 al 2015), l’utilizzo della bici resta a un triste 3,6%. In tanti vorrebbero usarla, ma non lo fanno perché la considerano «pericolosa». In realtà è un pregiudizio: è noto che gli incidenti mortali in auto sono molti di più di quelli in bicicletta, ma pochi sanno che ogni anno muoiono più persone cadendo dalla scala in casa che ciclisti in strada (studio Bike Radar). Eppure sulle scale si continua a salire.

Se Letizia Moratti aveva il sogno malsano di trasformare la circonvallazione di Milano in un viale «a scorrimento veloce», le amministrazioni di centrosinistra non sono indenni dalla sudditanza nei confronti dell’auto, narrata da decenni come mezzo di libertà e orizzonti allargati. In realtà imprigiona, invade spazi, scatena reazioni psicotiche e ammorba l’aria, ma – come insegnava Goebbels – ogni panzana ripetuta all’infinito diventa verità. S’è mai visto lo spot di un’auto nella sua condizione normale, cioè imbottigliata nel traffico?

A Milano, dopo 15 anni di tregua per la crisi le auto sono tornate ad aumentare, ce ne sono quasi 700mila in circolazione. Secondo Legambiente «non è stata colta l’opportunità della crisi economica per fare in modo che i mezzi alternativi diventassero più vantaggiosi rispetto all’auto». Anche da chi dovrebbe avere le idee più chiare: è appena passata su Twitter lo spot di un candidato del centrosinistra in Lombardia affacciato al finestrino di una supersportiva rossa.

Da un’amministrazione di centrosinistra ci si aspetterebbe una progettualità lungimirante e – quantomeno a parole – ogni tanto qualcuno ci prova. I cinque referendum «consultivi» sull’ambiente del 2011 vennero approvati a maggioranza bulgara (ci mancherebbe, sembravano domande di Catalano: «preferisci erbetta e uccellini o cemento e fumi neri?»), inducendo l’allora neosindaco Giuliano Pisapia a dichiarazioni che oggi appaiono un po’ avventate: «Milano si candida a essere la città più verde d’Europa per le politiche ambientali, il traffico, il risparmio energetico, la mobilità e la qualità dell’aria. Noi rispetteremo la volontà dei cittadini». Sette anni dopo abbiamo l’ottava aria più irrespirabile d’Italia, nonostante le flotte di bike sharing cinesi rovesciate in città e finite a riempire i Navigli. Qualcosa si è inceppato tra il dire e il fare, visto che la misura più gettonata è stato qualche blocco di (pochi) mezzi inquinanti (con infinite deroghe) al superamento di soglie di smog da megalopoli cinese.

La prima e più logica soluzione sarebbe usare della bicicletta, che a dirlo è tanto banale con il 50% del traffico automobilistico privato generato da spostamenti inferiori a 5 chilometri. Senza emissioni e senza occupare spazio, la bici restituisce la strada ai mezzi pubblici e riduce i costi per la sanità (malattie da inquinamento e cardiocircolatorie).

A bloccarla sono i soliti ostacoli, primo tra tutti uno Stato che non può rinunciare ai 70 miliardi l’anno che incassa dall’automobile. Poi ci sono le pressioni dell’industria automobilistica e le ansie elettorali: l’imprinting autocentrico rende i politici molto cauti, la paura è perdere consenso tra chi insiste a sentirsi libero solo quando guida il SUV o tra i troppi negozianti convinti che le persone facciano shopping solo se possono parcheggiare davanti alla loro vetrina.

Invece Milano potrebbe essere esempio e traino della nuova mobilità basata su rinnovabilità energetica e riduzione del traffico privato che sarà il tema centrale nello sviluppo urbano dei prossimi 50 anni. I presupposti per farne una città ciclabile ci sono tutti: una geografia ideale, il Politecnico che produce eccellenza, molto impegno nella società civile (da Ciclobby al mondo variegato delle ciclofficine) e un sindaco che unisce capacità manageriali, consenso e quel po’ di decisionismo che serve ad attivare progetti a lunga scadenza con qualche spigolo di impopolarità.

Ma in attesa che il miracolo di un progetto organico accada, alcuni interventi di base potrebbero essere avviati con poca difficoltà, partendo da quel tema della sicurezza che è l’ostacolo più citato da chi vorrebbe usare la bicicletta, ma ha paura. Non servono nuove leggi, basta far rispettare quelle che già ci sono per riportare la legalità – dunque la sicurezza – nelle strade, combattendo eccesso di velocità, sosta in doppia fila e sulle ciclabili, violazione della precedenza agli attraversamenti pedonali. E intanto facendo cultura con campagne mirate.

Basterebbe riportare al loro ruolo naturale di «vigili» i 3 mila agenti trasformati in «polizia locale» e in gran parte chiusi in ufficio. Andrebbe potenziata la rete ciclabile (ma basterebbero corsie leggere sperimentali per cominciare), andrebbero definite più zone 30 e zone 20 nei controviali. Nuove aree pedonali (un toccasana per commercio e sicurezza) non solo in centro e una limitazione dei parcheggi contribuirebbero a disincentivare l’uso dell’auto a vantaggio della bicicletta, dando al contempo spazio ai mezzi pubblici di superficie.

Milano tornerebbe a splendere. Non serve molto, no?