I Talebani hanno celebrato con toni entusiastici la fine della missione Isaf della Nato: «Un trionfo di portata storica», hanno scritto gli “studenti coranici” nella dichiarazione ufficiale apparsa sul sito dell’Emirato islamico d’Afghanistan. «Un successo straordinario» ottenuto da combattenti «a mani nude, armati solo della fede in Allah», contro «gli arroganti e bene armati seguaci di una fede spuria», gli americani che hanno «sparso il sangue degli innocenti afghani con la scusa e i falsi emblemi dello sviluppo, della prosperità e della libertà». La soluzione al conflitto? «Il completo e incondizionato ritiro di tutte le forze straniere».

«L’Emirato islamico afferma in piena responsabilità che se l’Afghanistan fosse liberato dalla brutale occupazione straniera» diventerebbe «un centro di pace e stabilità». Contro dei combattenti armati della fede in Allah, la soluzione militare è inefficace. «I problemi possono essere risolti in modo positivo, logico e costruttivo» con il dialogo e la diplomazia, come avvenuto nel caso del rilascio del soldato statunitense Bergdahl in cambio di cinque Talebani detenuti a Guantanamo.

Il negoziato dei barbuti

I barbuti ribadiscono dunque le posizioni espresse negli ultimi anni: sì al dialogo, ma a condizione che i soldati stranieri tolgano il disturbo. Senza eccezioni. Sono disposti a parlare di politica, i Talebani, a discutere di “dare e avere”, a sedersi al tavolo negoziale. Ma rimane un problema: chi rappresentano? In Afghanistan il fronte della guerriglia anti-governativa è diversificato, così come lo è il fronte talebano, composto da più di duecentomila combattenti: trenta, quarantamila le “forze mobili” a tempo pieno, alle quali si aggiungono le milizie part-time, le riserve, quanti sono in “congedo”, oltre ai membri della struttura burocratica, di intelligence e della logistica. Sono tre le principali shure (consigli) che gestiscono le attività degli insorti: la shura di Quetta, quella di Peshawar e la Miran Shah Shura. La prima raccoglie la vecchia guardia dei Talebani, molti degli esponenti dell’Emirato islamico d’Afghanistan, il governo rovesciato dagli americani nel 2001. Sono gli uomini più vicini al mullah Omar. È il cuore politico della galassia dei barbuti.
La shura di Peshawar rappresenta il cuore militare e finanziario. Passano da qui le decisioni strategiche e le richieste di finanziamento. Mentre la shura di Mirah Shah, con sede nel Nord Waziristan, in Pakistan, coincide con il cosiddetto network Haqqani, fondato da Jalaluddin Haqqani, tra i protagonisti della resistenza antisovietica negli anni Ottanta – allora foraggiato dalla Cia – oggi il più spietato tra i gruppi di insorti.

La nuova guardia

Tra le tre shure non corre sempre buon sangue. Soprattutto oggi, con l’affermazione di una nuova leva di combattenti e comandanti. La vecchia guardia è stanca di combattere, vorrebbe negoziare. Ma i giovani sono attratti dal jihadismo e dalla guerra fine a se stessa. Inoltre, il mullah Omar perde colpi. Nessuna sa se sia vivo o morto. Comunque, «non è più in grado di esercitare la leadership. Tanto che è già è in atto la corsa alla successione», ci ha detto a Kabul lo studioso Antonio Giustozzi.

L’eclissi del mullah Omar

Alcuni comandanti con forti ambizioni personali – come Abdul Qayyum Zakir, a lungo a capo della Commissione militare, silurato perché troppo sbilanciato su posizioni “muscolari” e fondatore della nuova, «quarta shura» a Mashad, in Iran, e come Sirajuddin Haqqani, attuale leader della Miran Shah shura – hanno messo in dubbio l’autenticità delle decisioni attribuite al mullah Omar. Pensano che i “messaggeri” del mullah Omar come Akhtar Mohammad Mansour giochino sporco. Che Omar sia morto o privo di autonomia. E che serva un nuovo leader supremo. Per questo, anche se il nuovo governo afghano dovesse riuscire a far ripartire il negoziato con i Talebani e ottenere un cessate il fuoco, sul terreno si potrebbe continuare a combattere.