All’edizione di quest’anno degli États généraux du film documentaire (www.lussasdoc.org), fra le altre, ottime cose da vedere c’è – per la sezione Historie de doc, a cura dello storico di cinema e programmatore Federico Rossin – un omaggio che presenta un approfondimento rigoroso su una esperienza ungherese che sembra essere senza pari nel panorama del cinema non commerciale occidentale. Si tratta del Balázs Béla Studió (BBS). Nasce nel 1959, soprattutto come una sorta di cineclub con l’obiettivo di riunire giovani, già al lavoro nel mondo del cinema, interessati a rinnovarne discorsi e forme. È un assetto che però dura poco. Tuttavia, nel 1961, un nuovo gruppo, fra cui autori e autrici che sarebbero poi divenuti i nomi del nuovo cinema ungherese di allora, ricostituisce il BBS. Da quel momento in poi, lo studio diventa laboratorio di un cinema di ricerca gestito dai suoi stessi membri e finanziato dal Ministero della Cultura, in negoziazioni che alle volte hanno ostacolato se non impedito la distribuzione di questa o quella pellicola, ma che sembra non abbiano comunque dato imposizioni durante il processo realizzativo, lasciando le libertà creative sostanzialmente intatte. Passando per fasi diverse nel corso del tempo, il BBS durerà fino al 2010. Oggi è un centro di ricerca e archivio che preserva e promuove la sua storia. Ha all’attivo 511 film, dal cinema sperimentale all’animazione, in dialogo tanto con le altre arti quanto con diverse discipline.

Un percorso fra programmi e temi

In questi ultimi anni, altri festival in Europa hanno mostrato film del BBS (Tessalonica, 2008), ma niente di paragonabile alla curatela di Rossin, la cui selezione finale contempla un numero complessivo di venticinque titoli, strutturati in cinque programmi in grado di indicare, se si considera la selezione come una specie di indice rappresentativo della produzione complessiva dello studio, certe evoluzioni storiche nei temi e nelle estetiche che hanno attraversato il BBS in vent’anni cruciali (primi ’60-primi ’80).

Inoltre, seguire la programmazione nell’ordine stabilito permetterebbe di osservare come quanto prodotto dallo studio sia sostanzialmente in linea con le principali tendenze della modernità cinematografica di quegli anni, quantomeno in occidente. Con il programma 1 si ha infatti una serie di film della prima metà degli anni ’60 in cui si trovano una libertà formale con echi di Nouvelle Vague (Te – Szerelmesfilm di István Szabó; Miénk a világ di Ferenc Kardos) e, in senso lato, un’attenzione figurativa mai fine a sé stessa a temi come il lavoro in fabbrica (Igézet di István Bácskai Lauró), oppure il rapporto uomo-animale (Elégia di Zoltán Huszárik). Nel programma 2 si nota invece un raggruppamento di opere di cui la maggior parte datate primi anni ’70, film dove la ricerca sembra spostarsi verso forme di cinema diretto, usate con finalità sociologiche (Fekete vonat di Pál Schiffer e Tamás Andor; Anyaság di Ferenc Grunwalsky). I film del programma 3 – tutti degli anni ’70 – introducono questioni più direttamente affini al discorso politico. Qui, in merito, non si può non citare Kentaur dell’artista Tamás Szentjóby (in quegli anni il BBS si apre alle influenze trasversali di altre arti, accogliendo fra le sue fila persone non diplomate in cinema). All’epoca censurato, si tratta di un film definibile come brechtiano, ma senza i manierismi del drammaturgo tedesco. Tramite post-sincronizzazione del sonoro, si mette in atto una frattura significativa tra la rappresentazione visiva del lavoro e i dialoghi fra i lavoratori, una scelta che fa emergere l’esistenza di una sorta di doppio linguaggio associabile al periodo Kádár (quello che si mostra non è quello che si dice; quello che si dice non è quello che si intende). Il discorso più apertamente politico continua con il programma 4, composto da film sempre degli anni ’70. Fra questi, val la pena segnalare Öndivatbemutató, opera “antropologica” di un altro artista della neoavanguardia ungherese, Tibor Hajas. Il programma 5 presenta invece una selezione di film (tutti degli anni ’70; uno dei primi anni ’80) in cui l’elaborazione visiva generale è più estrema rispetto agli altri programmi, in linea con una idea di cinema sperimentale artigianale nei modi e visionario negli esiti. Qui, fra i film da segnalare c’è sicuramente Hajnal di András Szirtes, ma ce ne sono poi altri che possono destare curiosità come, per esempio, Round, considerando che il suo autore è il compositore Zoltán Jeney (1943-2019), un nome nella musica classica contemporanea ungherese.

Alla fine del percorso si può senz’altro dire di aver visto opere formidabili tipo Igézet e Elégia. Ma quello che impressiona è soprattutto l’insieme. La produzione del BBS nei suoi primi vent’anni di vita la si può di certo definire una esperienza di sperimentazione, dove però – a differenza di altri casi paragonabili – la ricerca audiovisiva rimane in dialogo con il contesto sociopolitico.

Cinema indiretto

Per capire di più del lavoro di programmazione svolto da Rossin in questa occasione, val la pena riprendere quanto da lui stesso scritto per l’ebook di Open Access Cinema, una sezione – a cura di Gianmarco Torri – della scorsa Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.

«Di solito, in Histoire de doc, mi impegno in un vero lavoro di storico. Devo studiare la storia del paese, l’economia, la società, la cultura e la letteratura; devo andare nel paese quando è possibile, andare negli archivi, nelle cineteche.» Già da questa affermazione, si può intuire una sorta di equazione tra fare programmazione e ricerca storica. E ancora: «Come diceva Arnaldo Momigliano, la ricerca della verità nell’operazione dello storico è fondamentale. Una verità esiste, c’è. Come storici o registi, dobbiamo cercare di farla emergere, e per questo non importa quale metodo usiamo. Cerco di porre problemi teorici attraverso i film e attraverso il montaggio dei programmi in cui sono presentati.»

Ora, quanto riportato può essere considerato come una premessa per capire meglio quel che Rossin definisce come cinema indiretto, di cui la sua retrospettiva sul BBS è un esempio perfetto. «La questione centrale del mio lavoro di storico del cinema, e in particolare del cinema documentario, è quella del reale. Il reale è ciò che emerge dalla distorsione che qualsiasi sguardo alla realtà provoca. Il documentario non è il documento. La registrazione meccanica e indicizzata della realtà non è la garanzia del documentario. Quello che mi interessa è il cinema indiretto, i pericolosi legami del cinema documentario con il cinema sperimentale e la finzione.»

Guardando ai film del BBS in programma a Lussas, i legami di cui parla Rossin ci sono tutti. Sono legami le cui trame ci restituiscono una immagine di una società socialista come altrove – a quel tempo – non si faceva, e cioè in modo complesso, antiretorico.

I FILM IN PROGRAMMA

Al festival di Lussas di quest’anno, la sezione Histoire de doc (23-24 agosto) si occupa di Ungheria, con una retrospettiva sul Balázs Béla Studió (BBS), esperienza non più attiva nella produzione di film ma che, sul piano storico, risulta essere stata il più importante laboratorio di cinema di ricerca del Paese.
I film – quasi tutti corti; a colori e in b/n – sono suddivisi in cinque programmi. Questi i titoli: Te – Szerelmesfilm (1962), Miénk a világ (1963), Egyedul (1963), Férfiarckép (1964), Tisza-oszi vazlatok (1963), Igézet (1963), Testamentum (1965), Elégia (1965) (Pr. 1); Találkozás (1963), Hosszú futásodra mindig számíthatunk (1969), Archaikus torzó (1971), Fekete vonat (1970), Anyasag (1973) (Pr. 2); Nászutak (1970), Rongyos hercegno (1975), Kentaur (1973-75/2009) (Pr. 3); Hirado – Ifju házasok (1974), A határozat (1972), Öndivatbemutató (1976) (Pr. 4); Aréna (1970), Szilveszter (1974), Round (1975), Triolák (1981), Hajnal (1979), Álommásolatok (1977) (Pr. 5)