Scivolare dal bianco e nero immaginifico di Lav Diaz nel bianco e nero di Matarazzo, Amore mio (64) copia restaurata in anteprima della retrospettiva Titanus. Melodrammi di altri tempi. O è un tempo unico, il tempo del cinema?

From What is Before (Da ciò che era prima), titolo internazionale di Mula sa kung ano ang noon, è la nuova opera del cineasta filippino, riferimento per quella generazione di registi cresciuta nelle Filippine alla fine degli anni Novanta, dei Raya Martin e dei Khavn de la Cruz, un po’ sparpagliata e perduta tra gli abbracci troppo carezzevoli dei programmers festivalieri e dei Film Lab produttivi per il Sud del Mondo (che perifrasi gentile per dire Terzo mondo). In Italia non hanno mai circolato fuori dai circuiti festivalieri, e lo stesso è accaduto altrove, cosa questa che non aiuta. Lui però, Lav Diaz, il fratello maggiore (è nato nel ’58) , quando lo abbiamo scoperto tra i festival di Rotterdam e, in Italia, la Mostra del cinema di Venezia a direzione Marco Mueller che non mancava mai di invitarlo, nella grana dei suoi film lunghissimi – sei cinque sette ore – esprimeva da subito una poetica precisa e una corrispondenza lucida tra la materia delle sue storie e le immagini per narrarle, i tempi e la durata come elemento del racconto e insieme come gesto di resistenza se non di rivolta.

È un autore Lav Diaz, per la prima volta in gara, – come lo scorso anno fu la prima volta per Angerla Ricci Lucchi e Yervant Giankian col loro Pays barbare – ma è giusto così, è questo che un festival come Locarno può e deve pretendere dalla propria programmazione, qualcosa cioè che non sia la versione più debole dei grandi festival. Un film di quasi sei ore forse a Cannes (dove Diaz era lo scorso anno al Certain Regard con Norte) o a Venezia in gara è impossibile (peraltro l’anteprima di Lav Diaz è stata in luglio a Manila, cosa che lo ha escluso per statuto dalla selezione veneziana) qui invece è una scommessa giusta.

La storia inizia del 1970, e prosegue fino al 1972, le Filippine del regime di Marcos,e la prima immagine, un bimbo che nel bianco e nero del paesaggio remoto trasporta un casco di banane (potremmo essere nel Sertao brasiliano di cui parlava sempre Glauber Rocha) dichiarano l’ispirazione alla vita di persone «reali» e a «fatti realmente accaduti». Eppure questa affermazione di verità non coincide con una scelta di realismo, non nel senso della cronaca o della ricostruzione storica almeno. Il paesaggio che vediamo quasi sempre senza un orizzonte, se non il punto di fuga lungo il quale giocano i ragazzini sulle rive dell’acqua, delimitato dalla vegetazione dove crescono le capanne del villaggio, dalle rocce che nascondono la rabbia del mare, somiglia più a un luogo del pensiero, uno spazio in cui il movimento dei personaggi traccia segmenti di vita, il suo teatrino di sentimenti, ipocrisie, compromessi e conflitti, e insieme ci porta nella dimensione del cinema.

Diaz come Edgar Reitz in Heimat percorre la storia di un Paese nella sua dimensione quotidiana, oltre il mito e dentro l’esistenza delle persone, e come nel caso dell’ultimo di Reitz, Die Andere Heimat, al centro pone i diseredati, colui che dalla Storia vengono sballottati di più. Ma senza miserabilismo o retorica della pena, al contrario ognuna delle figure che popolano il mondo lavdiziano è viva e piena, e cerca una propria dimensione nella realtà di conflitti, violenze, massacri che la schiaccia.

Grazie a un uso della durata, del tempo cinematografico, Diaz porta noi spettatori a varcare poco a poco la soglia dell’inquadratura: entriamo in questo mondo, impariamo a conoscere i personaggi, sappiamo qualcosa di più (ovviamente) di loro e al tempo stesso ne condividiamo alcune esitazioni, quel fragile equilibrio che è lo stare al mondo (in questo senso il film che dura quasi sei ore si può vedere tutto di un fiato, o anche dividere in più parti).

Eccoci dunque in questa comunità, dove vive Itaga con la sorella malata di mente a cui però la ragazza attribuisce poteri di guaritrice perché è il solo modo per fare soldi. C’è zio Seito che vive col nipote, in realta è un bimbo che ha trovato nella foresta e salvato dalla mano omicida del padre, per fargli dimenticare i genitori gli ha raccontato che si erano ammalati di lebbra e perciò erano dovuti andare lontano, su un’isola sperduta.

C’è una donna impicciona che sparla degli altri e fruga nelle loro case, c’è un’anziana donna che vende foglie col riso e piange il figlio morto ammazzato… Dalla foresta si sentono grida spaventose e qualcuno uccide le vacche del possidente della zona. Il vigilante caccia l’anziano Seito, piu povero di lui…
Segni di qualcosa che sta accadendo, presagi.

C’è una certa solidarietà nel villaggio, finché arriva l’esercito: devono sterminare i ribelli, ogni abitante è sospetto, viene imposto il coprifuoco, anche il prete è messo sotto controllo perché osa esprimere dei dubbi al militare su Marcos.
Il 1972 è l’anno in cui Marcos, appoggiato dagli Stati uniti, sciolse il Parlamento, fece una nuova Costituzione con cui concentrava su di sè tutti i poteri politici, eliminando ogni opposizione con l’appoggio brutale dell’esercito che aveva mano libera.
Non abbiamo bisogno dell’esercito ma della presenza del governo dice uno del villaggio ricordando le promesse mai mantenute di asfaltare la strada che va verso la città e di rimettere in uso un ponte che permette spostamenti più veloci. Marcos nella sue feroce dittatura spogliò il Paese accumulando per sè e per la sua famiglia immense ricchezze, esempio di una politica coloniale americana di sostegno a dittatori per salvaguardare i propri interessi. La Storia e le storie. Il presente e il passato. In fondo non c’è una linea di demarcazione netta, nella dimensione fuori dal tempo eppure così profondamente radicata a un presente di Diaz, è come se i diversi momenti, le diverse epoche si fondessero insieme.

Chi sono questi uomini e donne che religione cattolica, credenze animiste schiacciano nella paura? Ma anche apparenza perché la frutta e il pollo votivi alla madre Roccia sono cibo per chi non ne ha, e quando la ragazza Itanga li lascia in cerca di segni propiziatori, il ragazzino affamato e il vinaio fanno festa. Lei stessa, poi, inscena il rito della sorella guaritrice per campare, e quell’uomo misterioso arrivato dal nulla che scrive poesie di dolore, cosa porta con sè?

La distanza tra questa realtà, l’esterno, il potere la cui risposta è solo repressione è laddove si muove la macchina da presa di Diaz, e costruisce il suo movimento, il respiro epico di una consapevolezza della «realtà» e della sua immagine. Del cinema.