Il museo Madre di Napoli, con la neo-direzione di Andrea Viliani, apre la stagione estiva con la bellissima antologica del magnetico Francis Alÿs, Reel-Unreel, Afghan Project 2010-2014 (visitabile fino al 22 settembre). Francis de Smedt in arte Francis Alÿs (Anversa, 1959) è un artista di intensità creativa e intellettiva non convenzionale. Segue un percorso indagativo psicogeografico attraverso cui ripensa gli inganni della società post-capitalistica e i suoi meccanismi per dominare con il «dis/ordine» mondiale. Alÿs, col suo fare immaginifico, attraversa quei territori psichici e geografici che delimitano la dimensione post-coloniale: la modernità, in fondo, ha disilluso ogni aspettativa ditrasformazione socio-politica.
Per affiliarsi a una simile responsabilità indagativa, Alÿs adotta una pratica artistica inedita, non tanto per la disarticolazione radicale dei codici espressivi vigenti, quanto per la sua prassi comportamentale, apparentemente illogica, che ondeggia tra post-strutturalimo e post-situazionismo e formalmente eclettica (azioni, camminate, pittura, scultura, fotografia, video). Una pratica che lo conduce a inabissarsi in quella vertigine di antagonismo concettuale che fonda il suo paradigma espressivo nel «paradox of praxis».
Ogni sua opera, infatti, è un work in progress di immagination au pouvoir che si sviluppa nel tempo, a volte per anni, attraverso cambiamenti (passeggiate urbane di derivazione situazionistica) e reiscrizioni formali post-avanguardistiche. Se l’arditezza progettuale è una delle connotazioni peculiari su cui l’artista impianta i suoi paradossi estetici, lo è ancor di più il sostrato speculativo che sottende l’opera. L’apparente assurdità della mise en scène con cui l’artista belga codifica l’opera non maschera però la potenzialità politica insita nel suo sottofondo, poiché la sottigliezza concettuale è tale da commutare politica e poetica vicendevolmente.
Il corpo centrale della densissima mostra napoletana, curata da Andrea Viliani e Eugenio Viola (in collaborazione con il Centre for Contemporary Art Ujazdowski Castle di Varsavia) è imperniato sulle ultime opere concepite tra il 2010-2014 e di cui il video Reel-Unreel (2011) è l’ennesimo dispositivo visuale. Girato da Alÿs a Kabul, in collaborazione con Ajmal Maiwandi e Julien Devaux in occasione di Documenta 13, il filmato ha il suo punto di partenza nel classico gioco di strada in cui un gruppo di bambini tenta di far girare un cerchio con l’ausilio di una stecca di legno. Nella mise en scène di Alÿs, il cerchio allude alla bobina di un film. La ripresa segue un gruppo di bambini afgani che, alternandosi, fanno ruotare la bobina giù per le colline di Kabul.
Il titolo Reel-Unreel gioca concettualmente sia sullo scarto fonemico della sua pronuncia assimilata a real/unreal, alludendo all’immagine «reale/irreale» dell’Afghanistan trasposta dalla distorsione mediatica in Occidente, sia letteralmente, all’atto di avvolgere e srotolare (la bobina filmica). L’artista intende reiscrivere il lifestyle abituale della popolazione afghana in contrapposizione alla «disumanizzazione» sistematica che il mainstream mediatico ha trasformato in fiction nei decenni della guerra. L’idea del video di Alÿs è quella di riattraversare l’essenza della realtà quotidiana senza infingimenti attraverso il gioco dei ragazzini che riproduce l’osmosi tra protagonisti e territorio. Declinando sul protagonismo dei bambini integrati allo spazio cittadino, Alÿs, in qualche modo, ripete la pratica del paseo (passeggiata), riperimetrando, al tempo stesso, la realtà cittadina contraffatta dalla fiction. Il meccanismo quasi automatico con cui i bambini attraversano Kabul e dintorni ruotando la bobina, avvolgendo e srotolando il nastro di celluloide è una sorta di reiscrizione spaziale. Una sorta di cancellazione dello stereotipo culturale, indotto e pilotato dalla premeditazione mediatica di regime.
Lo srotolamento del nastro di celluloide lascia una linea immateriale del passaggio riattivando quel congegno concettuale alysiano già presente in The Leak del 1995, Don’t Cross the Bridge Before You Get to the River (2008) e nello stesso Paradox of Praxis 1 (Sometimes Doing Something Leads to Nothing). Il ciak dà inizio alla corsa del bambino giù per il pendio di Kabul, inseguito da uno stuolo di altri piccoli bimbi vocianti tra camion, motorini e clacson e termina allorché la bobina, incautamente, sfugge dalla mano del protagonista e scivola via, per sempre, lungo il pendio della città. L’asserzione «Cinema: Everything Else Is Imaginary» chiude epigraficamente il video, ammaliante esemplare di Cinéma Verité. L’ampia esposizione si espande nella serie dei piccoli e preziosi dipinti Color Bar Paintings, una sorta di geometrie minimaliste o altrimenti collage che alludono alle schermate televisive digitali prive di animazione (è la preconcetta piattezza critica con cui l’invasione afgana è stata «confezionata» dalla governance mediatica internazionale).
Ancora un riferimento preciso a quel Guy Debord che prefigurò il dominio della Società dello spettacolo e che Alÿs ravvisa pesantemente nel sistema di infoitement . Lo fa con la sua intensità e sofisticatezza formale: i dipinti spaesanti che si rincorrono sulle pareti sembrano specchiarsi nella giustapposizione nei disegni, negli appunti, annotazioni, oggetti, cartoline, ritagli di giornali, collage di acetato che intarsiano le teche poste nelle sale e che descrivono il filo del pensiero, l’iter del progetto. Un viaggio, uno sconfinamento, una riflessione.
E, proprio perché l’antologica è oncepita come rappresentazione della viscerale attitudine di Alÿs all’arte di comportamento vengono inseriti due video che testimoniano due delle sue più estasianti azioni. Paradox of Praxis 1 (Sometimes Doing Something Leads to Nothing) del 1997, azione di umore quasi beckettiano, in cui l’artista spinge per le strade di Città del Messico, per nove ore, un blocco di ghiaccio fino a farlo liquefare totalmente. Solitamente, questi enormi blocchi di ghiaccio vengono spostati nella zona commerciale dello Zocálo dai venditori ambulanti per conservare fresca la merce in vendita e rispondendo ad una funzionalità precisa, mentre Alÿs, nel tramutare lo stesso sforzo in un atto estetico, legittima la disfunzionalità pratica. La paradossalità dell’azione (che si conclude con la smaterializzazione letterale e simbolica dell’oggetto) nel suo farsi atto, conferma la pratica di riappropriazione dello spazio organizzato mediante le tecniche della produzione estetica.
Altrettanto indimenticabile è The Green Line (Sometimes Doing Something Poetic Can Become Political and Sometimes Doing Something Political Can Become Poetic) del 2004. Qui Alÿs cammina per due giorni, costeggiando un segmento della linea di separazione Green Line (la linea prende il nome dal limite tracciato con una matita verde da Moshe Dayan su una mappa che divideva Gerusalemme in Est e Ovest) instaurata nel 1949 con l’armistizio della guerra tra Israele e Giordania e rimasta in vigore fino alla «Guerra dei sei giorni» (tra Israele e gli Stati Arabi) nel 1967.
Contemporaneamente, si è anche aperta la mostra (terzo appuntamento) Per formare una collezione (Intermezzo) a cura di Eugenio Viola e Alessandro Rabottini,progetto in progress della costituzione della collezione del museo Madre.