In un quadro di tensioni internazionali, e con le assenze annunciate del leader cinese Xi Jinping e di Vladimir Putin, la Conferenza di Glasgow si annuncia già come un probabile fallimento. Questo mentre l’ultima valutazione delle Nazioni Unite sui piani per il clima suggerisce che le emissioni aumenteranno del 16% entro il 2030. Siamo decisamente fuori strada, se pensiamo che l’obiettivo di rimanere in una traiettoria con un aumento massimo di 1,5°C della temperatura media globale richiederebbe la riduzione delle emissioni di gas serra del 45% entro il 2030.
Gli ultimi cinque anni (2016-2020) sono stati i più caldi mai registrati (vale a dire almeno dal 1850) e i segnali della crisi climatica in corso sono visibili in tutti i continenti. E ovviamente anche in Italia, dove piogge torrenziali stanno colpendo pesantemente alcune zone della Sicilia, la stessa regione in cui quest’estate si era registrato un record storico di temperature.

Il recente sesto rapporto di valutazione dell’IPCC – il volume di aggiornamento sulla scienza del clima, pubblicato lo scorso agosto – ha confermato che il limite di riscaldamento di 1,5°C è ancora raggiungibile, da un punto di vista fisico, ma solo con tagli che portino le emissioni di carbonio a zero e oltre. Le stime dei costi potenziali degli impatti del riscaldamento globale variano ancora ampiamente, ma sono molto più alte di quanto suggerito da studi precedenti. Ad esempio, due recenti studi molto importanti prevedono perdite del 10% e del 23% del PIL globale in questo secolo, in caso le emissioni non vengano ridotte rapidamente. Un livello di danno economico maggiore della Grande Depressione degli anni Venti e Trenta.

Secondo l’IPCC, per darci una possibilità del 50% di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, la quantità di CO2 che possiamo ancora emettere è pari a circa 500 miliardi di tonnellate, conteggiate dall’inizio del 2020. Se volessimo arrivare al 67% di probabilità, la cifra dovrebbe essere di circa 400 miliardi di tonnellate. Ma attualmente le attività umane emettono oltre 40 miliardi di tonnellate all’anno.
Con gli impegni attuali le emissioni aumenteranno del 16% entro il 2030, mettendoci sulla buona strada per almeno 2,7 gradi di riscaldamento globale medio della temperatura del Pianeta entro la fine del secolo. Ecco perché, a Glasgow, abbiamo bisogno che le nazioni più ricche dimostrino leadership e si muovano molto più velocemente. Ai Paesi del G20 è riconducibile quasi l’80% delle emissioni globali, ma diversi di loro devono ancora rivedere al rialzo i loro piani di riduzione delle emissioni. Tra questi India, Cina, Australia, Arabia Saudita, Russia e Brasile. E anche l’Italia non ha ancora presentato la nuova versione del Piano Integrato Nazionale Energia e Clima (PNIEC) che dovrebbe essere coerente con gli obiettivi europei di decarbonizzazione.

Un primo obiettivo della COP dovrebbe essere quello di richiedere l’eliminazione graduale dei combustibili fossili, sia nelle politiche nazionali che negli investimenti all’estero che andrebbero bloccati. Ciò significa niente nuovi pozzi petroliferi, niente nuove centrali a carbone, niente nuove miniere di carbone e niente nuovi progetti di gas. L’eliminazione graduale dei combustibili fossili dovrebbe essere realizzata attraverso una transizione equa per i lavoratori e le comunità colpite. Ciò significa porre fine al sostegno pubblico per i progetti esistenti sui combustibili fossili. In via prioritaria il carbone, il combustibile fossile più inquinante, dovrebbe essere eliminato il più rapidamente possibile. Soluzioni intelligenti, efficienti e sostenibili sono disponibili già e a costi competitivi, se si vuol farlo e se si investe nelle infrastrutture necessarie a gestire un sistema energetico basato sulle fonti rinnovabili.

Un punto critico riguarda la spinta del settore fossile e di alcuni Paesi per creare un mercato globale degli “offset” forestali: la compravendita di “crediti forestali“ per poter vendere prodotti e servizi basati sulle fossili come “neutri” dal punto di vista climatico, in quanto in teoria compensati dalla crescita delle foreste (come fa ENI con le foreste ad esempio dello Zambia, quest’anno fortemente colpito da incendi). L’articolo 6, che si cerca di utilizzare a questo scopo, deve essere invece interpretato come una definizione delle regole per la cooperazione internazionale sul clima, non come un’opportunità per impostare strategie di dilazione, come quelle dei mercati di compensazione del carbonio.

Deve riguardare il modo in cui i Paesi cooperano, lavorando insieme nella fornitura di finanziamenti, trasferimento di tecnologia, condivisione delle conoscenze e creazione di capacità per garantire la massima mitigazione e adattamento possibile. Non è accettabile permettere alle nazioni e alle multinazionali più ricche di mercificare la natura e di acquistare terreni nei paesi più poveri per compensare le proprie attività, in modo da poter continuare a inquinare l’atmosfera. I progetti di compensazione basati sulla natura distorcono le economie e tolgono terra e risorse alle comunità locali che ne hanno più bisogno. La natura dovrebbe rimanere fuori dal mercato delle “compensazioni climatiche”. Questo è un punto critico per il concetto di “net zero”: un impegno Net Zero senza riduzioni drastiche e consistenti delle emissioni a breve termine che si basi su eventuali compensazioni come gli offset forestali (come ENI e altre grandi aziende multinazionali intendono fare) è greenwashing: vendo oggi gas di petrolio liquefatto come “verde”, le cui emissioni sono compensate da assorbimenti forestali pagati a basso prezzo, in aree in cui domani potranno esserci incendi anche legati al riscaldamento globale.

Diverse analisi degli impegni Net Zero assunti da aziende e Paesi hanno fatto emergere che le azioni concrete per realizzare questi cambiamenti sembrano non concretizzarsi. Mancano obiettivi a breve e medio termine, le riduzioni delle emissioni vengono sostituite con sospette compensazioni e vengono utilizzati vari altri trucchi o scappatoie, per evitare un primo vero passo concreto verso le emissioni prossime allo zero nei prossimi decenni. Qualunque meccanismo di supervisione che non abbia sufficiente rigore e trasparenza finirà con l’espandere il greenwashing che già esiste.

È necessario che i Paesi più ricchi si presentino alla COP26 con nuovi fondi e una proposta solida, trasparente che mostri come i 100 miliardi di dollari promessi in finanziamenti per il clima per le nazioni vulnerabili saranno soddisfatti ogni anno fino al 2025. E gli impegni successivi a quella data devono essere basati sui bisogni e sugli inviti della comunità scientifica, con obiettivi chiari che vadano anche oltre i 100 miliardi. Gli Stati Uniti, l’Unione Europea, il Regno Unito, il Giappone, il Canada e l’Australia sono state tra le principali realtà a impegnarsi a fornire 100 miliardi di dollari di finanziamenti per il clima all’anno entro il 2020. Ma non sono ancora riusciti a rispettare queste promesse, c’è infatti ancora un divario di 20 miliardi di dollari rispetto agli annunci: questi Paesi sono chiamati ad adempiere alle proprie responsabilità.

* Direttore Esecutivo di Greenpeace Italia