Con un giorno di ritardo, guidata da Bashar al Jaafari, la delegazione governativa è arrivata ieri a Ginevra per partecipare all’ottavo round dei colloqui sulla Siria. Tuttavia le nuove fratture emerse nell’opposizione hanno già minato le scarse possibilità di successo della trattativa. L’inviato speciale dell’Onu Steffan De Mistura lavora ad un faccia a faccia tra le parti ma gli oppositori si sono spaccati tra coloro che, sulla base della dichiarazione di Riyadh della scorsa settimana, chiedono che il presidente Bashar Assad sia escluso subito dal futuro politico della Siria e chi pensa che questa condizione non sia realistica. Damasco da parte sua lascia che gli avversari si facciano la guerra tra di loro. Il quadro militare sul terreno è sempre più favorevole alle autorità nazionali siriane e Assad, forte del sostegno russo e iraniano, non deve fare altro che parare i colpi dell’Arabia saudita che interviene con forza su vari scenari regionali, nelle scorse settimane in Libano, per rimescolare la carte e indebolire Damasco e Tehran.

Il futuro della Siria si deciderà probabilmente al prossimo vertice a Sochi, promosso da Iran, Russia e Turchia, le vere protagoniste al tavolo delle trattative. Allo stesso tempo la questione curda resta sulla porta della diplomazia regionale e internazionale. Ieri il vicepresidente del partito turco filo-curdo Hdp, Hisyar Ozsoy, ha chiesto a Iran, Russia e Usa di imporre alla Turchia l’inclusione dei curdi siriani nelle trattative. «Se quei Paesi vogliono una Siria stabile, allora devono convincere la Turchia che non c’è altra via d’uscita che includere i curdi nel processo politico», ha avvertito. Da parte loro i curdi si stanno finalmente risvegliando dall’illusione che gli Stati Uniti, per i quali hanno combattuto contro l’Isis nel nord della Siria, li avrebbero ricompensati con l’indipendenza. Donald Trump infatti ha promesso ad Erdogan che Washington cesserà il sostegno alle forze curde Ypg e Pyd in modo da ricucire l’alleanza con la Turchia. «Sono giunti alla conclusione che è sbagliato fidarsi troppo delle promesse americane – spiega l’analista Abdelbari Atwan -, hanno imparato da ciò che è successo ai loro fratelli nel nord dell’Iraq».