Dall’estate del 2014, da quando l’Isis ha cominciato la sua campagna di espansione a est, sbaragliando gli avversari e allargando i confini dalle sue roccaforti in Siria fino ad inglobare Mossul, la seconda città per importanza, l’Iraq ha perso ancora più la sua identità. L’esercito iracheno, all’arrivo delle bandiere nere dell’Isis, si è dissolto, lasciando Mossul e i suoi 2 milioni e mezzo di abitanti nelle mani del Califfato.
Mossul è caduta in dodici ore.

L’esercito iracheno in fuga ha abbandonato sulla strada moltissime armi, di cui si è impadronito l’Is. Armi pesanti, artiglieria, lanciamissili, cento carri armati e alcuni elicotteri. Grazie a questo regalo insperato, ora lo Stato Islamico possiede anche i mezzi corazzati per difendere i suoi nuovi confini ad est, dalle zone montuose a nord di Mossul giù verso Baghdad, meta finale della campagna di restaurazione del Califfato, lungo una linea di combattimento di 1050 chilometri.

A circa 65 chilometri da Mossul c’è Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, il più antico insediamento abitato al mondo. Siamo ai confini dello Stato Islamico, la cui incombenza si fa sentire. Le radio parlano solo di Is, le tv locali trasmettono combattimenti, le strade sono presidiate dai peshmerga, giovani e meno giovani, armati di kalashnikov. È qui che migliaia, dei quasi due milioni tra profughi e rifugiati dell’Iraq, cerca riparo. Le Ong dicono che i flussi di rifugiati ultimamente sono stabili, ma il problema da affrontare al momento è la «winterisation», l’ondata di freddo che ha investito la regione.

Racconta Mons. Nona, vescovo di Mossul in esilio a Erbil, che inizialmente l’arrivo dell’Isis in città non fu troppo traumatico. Alcuni dei cristiani, fuggiti nelle prime ore, erano ritornati in città, dove la vita sembrava essere ripresa e il Califfato appariva meno spaventoso di come lo si dipingeva. I vertici dello Stato Islamico, composto anche da ex intelligence irachena e membri del partito Ba’th, avevano garantito che non ci sarebbero stati problemi. Dopo un iniziale momento di calma, «ha mostrato la sua vera faccia, continua Mons. Nona e, in brevissimo tempo, ha imposto a tutti i non islamici di convertirsi, oppure di lasciare le proprie case, i propri averi, le proprie vite, con nient’altro addosso se non i vestiti. E così hanno fatto centinaia di migliaia di persone in tutti i territori conquistati dall’Isis. «Lo Stato Islamico esiste», ci racconta Nona che sta per lasciare l’Iraq.

Questa situazione ha prodotto un’ondata di rifugiati, per lo più cristiani e yazidi di Mossul, Tikrit e Karakosh, che sono fuggiti dall’Isis. Attualmente, in Iraq sono presenti circa due milioni tra profughi della Siria e rifugiati iracheni, e di questi, circa il 47% ha riparato nella regione autonoma del Kurdistan iracheno. Nei campi rifugiati vediamo molte più donne che uomini. La ragione è rivelata proprio dalle lacrime delle donne, circondate dai bambini, i figli degli uomini scomparsi. Se fermati dalle milizie jihadiste, gli uomini vengono separati dalle donne e fatti sparire. Se sono fortunati vengono costretti ad abbracciare la fede islamica e combattere con lo Stato Islamico.

Molto spesso vengono fucilati sul posto. La maggior parte delle donne rifugiate ha visto per l’ultima volta i propri mariti più di sei mesi fa e non ha avuto più notizie. Anche le donne pagano il loro tributo di sangue allo Stato Islamico. L’Isis ha rapito circa cinquemila donne, spesso minorenni, per usarle come schiave sessuali e bottino di guerra. Molte hanno partorito in seguito alle violenze. Costrette a partorire e acrescere un figlio dello Stato Islamico. Attualmente risultano 1580 donne ancora in prigionia, mentre circa un centinaio è riuscito a scappare o è stato rilasciato.

Una di loro, una giovanissima ragazza che ha preferito restare anonima, ha raccontato la sua prigionia. Dopo aver attaccato il suo villaggio, l’Isis ha preso gli uomini e li ha fucilati, poi ha scelto le donne più giovani per farle proprie prigioniere. Lei era tra queste. Rinchiuse in una soffitta, giorno dopo giorno, i combattenti dello Stato Islamico venivano a scegliere le donne da prendere in moglie, a reclamare il proprio bottino di guerra.

Raggiungere il fronte di combattimento non è facile, né esente da pericoli. Bisogna superare i checkpoint dei peshmerga e sperare di non aver imboccato una strada controllata dall’Isis. Mano a mano che ci si avvicina alla linea del fronte, le automobili che vengono in senso contrario diminuiscono fino a sparire del tutto. A quel punto ci si trova ad un passo dalla terra di nessuno, dove solo i peshmerga rimangono a contrastare la furia dell’Isis. Raggiungiamo un avamposto vicino Telskuf, a soli dodici chilometri da Mossul. I militari sono pochi, male armati, stanchi, ma determinati a non cedere.

Uno dei combattenti ci indica una collina a poche centinaia di metri da noi e dice solo «Isis», come a dire che da lì comincia lo Stato Islamico. Dalle postazioni dell’Isis piovono quotidianamente colpi di mortaio e bombe. I combattenti dell’Isis non arretrano mai, non si arrendono, tutti sono martiri, tutti kamikaze, ci raccontano i pehmerga. Alcuni vengono messi alla guida di mezzi corazzati imbottiti di esplosivo, così che l’autobomba corazzata possa resistere al fuoco leggero delle postazioni nemiche, per poi esplodere oltre le linee difensive.

Se non ci pensa l’Isis a decimare i peshmerga, ci pensano gli Ied (improvised explosive devices), bombe di fortuna fatte con qualsiasi cosa si possa nascondere nel terreno. Questi congegni uccidono l’80 per cento delle vittime kurde.