Sono passati dieci anni. Non ne siamo ancora usciti e c’è perfino il rischio che ne arrivi un’altra, ancora peggiore. La crisi economica partì nell’estate del 2007 dagli Stati Uniti. In quei giorni scoprimmo espressioni finanziarie fin lì sconosciute: «mutui subprime» e «hedge fund».

L’immagine simbolo della crisi è però legata a degli scatoloni. Il 15 settembre 2008 la Lehman Brothers, una delle banche d’affari più grandi del mondo, annunciò di avere debiti per la spaventosa cifra di 613 miliardi di dollari. Dichiarò fallimento e licenziò immediatamente tutti i dipendenti che uscirono ordinatamente dalla sede – un grattacielo di New York- con gli scatoloni pieni dei effetti personali.

Nel giro di un anno la crisi attraversò gli oceani: colpì l’Europa e il Giappone, mentre Cina e Russia rimasero in piedi.

All’origine ci fu una bolla speculativa: agli americani era concesso comprarsi casa o qualsiasi cosa senza chiedere in cambio garanzie.

Società finanziarie dichiaravano fatturati e attivi monstre figli semplicemente del fatto che prestavano soldi che non avrebbero mai avuto indietro. Le famiglie si indebitavano a dismisura perché c’era chi glielo consentiva e ci lucrava sopra. Poi la bolla scoppiò e a rimetterci furono i dipendenti di Lehman Brothers e il milione di famiglie americane che si videro sequestrare la casa quando il rubinetto del credito fu repentinamente chiuso. Il panico attraversò la finanza senza regole di Wall Street.

Qualche giorno fa Yanis Varoufakis ha paragonato il 2007 del capitalismo al 1989 del comunismo reale. La differenza però è che il capitalismo è sopravvissuto. E incredibilmente oggi alcuni economisti sostengono che negli Stati Uniti e in parte di Inghilterra ci troviamo in una situazione molto simile: il debito privato nei consumi è alle stelle e nessuno sta controllando. Come nel 2007.