Va giù durissima Giorgia Meloni. Trasforma la conferenza stampa di presentazione della Conferenza programmatica del suo partito, il 29 aprile a Milano, in una sfuriata contro gli alleati. Anzi contro i «forse alleati» perché di dubbi sulle reali intenzioni di Lega e Forza Italia sorella Giorgia ne nutre a valanga: «Che ci siano in questo momento difficoltà nel centrodestra è evidente. Salvini non lo sento da tre mesi. Il problema è se l’obiettivo degli altri partiti è ancora dare alla nazione un governo di centrodestra. A volte mi sembra che si prenda in considerazione anche una maggioranza arcobaleno».

QUEL DUBBIO SULLE REALI intenzioni degli alleati è molto più che vago, tanto che la leader di FdI ci torna sopra, batte e ribatte: «Io non ho piani B. Spero neanche gli altri ma va chiesto a loro se l’obiettivo è battere la sinistra o FdI». L’eventuale lista unica Lega-Fi non la spaventa, e comunque è più una fantasia che altro anche perché i sondaggi sentenziano che uniti si perde, cioè si prendono meno voti che separati. Ma sul punto che lei per prima sa essere la vera spina la presidente del primo partito della destra non arretra: chi si insedia a palazzo Chigi se la coalizione vince nelle urne? «Con questa legge la regola del centrodestra è che chi arriva primo propone il premier. Per fare il premier c’è chi è disposto a fare figuracce. Io no».

Il caos sulle amministrative spiega la tensione ma solo in parte. In Sicilia la crema è impazzita. Circolano ipotesi vertiginose su alleanze Iv-FdI a favore del candidato civico Roberto Lagalla per Palermo contro quello di Forza Italia Francesco Cascio. Probabilmente sono solo fantasie ma di certo la quadra tra la candidata tricolore Carolina Varchi e l’azzurro Cascio non si trova e non arriva neppure il semaforo verde della Lega per la conferma di Nello Musumeci alla Regione, blocco che più di ogni altra cosa fa imbestialire la leader.

Ma c’è in ballo molto più che non un ennesimo braccio di ferro suicida sulle poltrone dei primi cittadini e dei governatori, pessima prova nella quale la destra si è già prodotta senza imparare niente dalla conseguente batosta nell’ultima tornata di amministrative. La vera nota dolente è la convinzione di Giorgia Meloni, tutt’altro che recente e per nulla infondata, che gli alleati non siano affatto disposti a restare in una brigata a conduzione tricolore. Proprio per rompere l’accerchiamento ha scelto di abbracciare senza alcun distinguo la fede atlantista, al punto di non incontrare Viktor Orbán nella sua trasferta italiana, a differenza del capo leghista. Perché «io sono il presidente di un partito europeo con delegazioni dell’est che sulla crisi ucraina hanno sensibilità diverse da Orbán: ne devo tener conto». Ma honni soit qui mal y pense: «Non c’è nessun derby a destra». Quando si nega l’evidenza…

IL PROBLEMA, LA SPINTA che spiega l’intemerata di ieri, è probabilmente il timore che gli altri partiti di destra possano scartare in anticipo rispetto alle elezioni e, invece di rompere subito dopo il voto in caso di trionfo di FdI, possano spostarsi subito su una legge proporzionale che per Fratelli d’Italia sarebbe davvero fatale. Sin qui, nei vertici di maggioranza delle ultime settimane e anche di pochi giorni fa, leghisti e forzisti hanno tenuto fede al patto con FdI, hanno fatto muro contro il proporzionale ormai sponsorizzato senza riserve anche da un Pd che vede traballare l’alleanza con il nuovo Conte, versione senza pochette e descamisada.

Ma prima delle elezioni amministrative non potrebbe essere diversamente: uno spostamento della destra interna alla maggioranza sul proporzionale implicherebbe la fine della coalizione e la conseguente sconfitta quasi ovunque. Il momento della verità arriverà solo dopo questa tornata e quanto Meloni tema quella verità lo si è capito ieri. Anche perché l’eventuale divorzio tra Pd e M5S significherebbe l’avvio di una corsa di entrambi i partiti verso l’accordo con Lega e Forza Italia per il dopo elezioni politiche. In tinta arcobaleno per Enrico Letta, gialloverde per Giuseppe Conte.

ED È SIGNFICATIVO che ieri a rassicurare la furibonda alleata non sia stato Salvini, né Tajani, ma solo Lorenzo Fontana: «La Lega è da sempre impegnata per l’unità del centrodestra in Italia e in Europa. L’auspicio è che ci sia una convergenza nei prossimi giorni: non c’è tempo per sterili polemiche». Cosa si può chiedere di più?