Un pallone che sfonda un muro. Chilometri quadrati virtuali che tenevano separati Cuba e il calcio, in generale lo sport professionistico. Mondi lontani, divisi. Vasi non comunicanti. L’Occidente per i fuoriclasse cubani – e negli anni ce ne sono stati vari, dalla pallavolo al baseball – era solo un sogno. La fuga, la diserzione l’unico mezzo per venirne a conoscenza, spesso scomparendo nel mezzo di manifestazioni sportive internazionali. Oppure via da casa, con mezzi di fortuna, per farsi sedurre da legittimi sogni, guadagni migliori, la competizione con il resto del mondo, osservato dall’oblò di un’isola.

Ora invece, mesi dopo l’operazione disgelo tra le autorità cubane e statunitensi, rappresentanti dell’Occidente, accade addirittura che due calciatori cubani, Maikel Reyes e Abel Martinez, lascino l’isola per finire in Messico, in seconda categoria, al Cruz Azul. Due onesti mestieranti del pallone, nessuna superstar, ingaggi anche bassi, un solo anno di contratto. Ma è un evento, un frame di storia. Mai nessun calciatore aveva lasciato Cuba, mentre ora altri sono in trattative con club di Panama, El Salvador, Honduras, Giamaica. Un passo deciso nel professionismo anche per il pallone, un cambio di rotta che segue la decisione presa dal governo cubano, tre anni fa, con l’autorizzazione dei contratti all’estero per i giocatori di baseball che veniva estesa agli atleti di ogni disciplina. Per loro, l’80% dei premi ottenuti in gare fuori da Cuba, il resto in tasse allo Stato, mentre in precedenza ricevevano uno stipendio, con il resto dei compensi congelati dal potere centrale, come avveniva in Unione Sovietica. In pratica, un ritorno allo sport professionistico, che era stato abolito nel 1959, dopo la Revoluciòn e l’ascesa al potere di Fidel Castro.

comsos

Una situazione che non hanno potuto vivere, straordinari campioni cubani del passato, da Javier Sotomayor nel salto in alto, oppure l’olimpionico di Sydney 2000 e quattro volte campione mondiale nel salto in lungo Ivan Pedroso. Oppure Alberto Juantorena, vincitore di due medaglie ai Giochi di Montreal 1976, che sul podio olimpico canadese scoppiava a piangere non per il successo a cinque cerchi ma per l’imminente anniversario dell’assalto alla Moncada di Santiago di Cuba, ricordando il sangue versato da Fidel Castro e i suoi, il 26 luglio 1953. Il primo passo verso la Revoluciòn Cubana.

Ora la situazione è diversa, Stati uniti e Cuba procedono verso la normalizzazione dei rapporti politici ed economici, con inevitabili effetti positivi anche nelle relazioni sportive. Senza dimenticare che lo sport è intervenuto, come spesso in altri momenti storici, a raffreddare i bollenti spiriti tra le due parti. Nell’aprile 2015 la Nba preparava il terreno per il riavvicinamento con Cuba dopo 50 anni di lotte ed embargo a Barack Obama e alla delegazione statunitense piazzando su un aereo diretto a L’Avana Steve Nash e Dikembe Mutombo, due stelle assolute della palla arancione.

Tre giorni di camp, il mito della Nba per i giovani cubani, l’impegno a portare altre stelle, a rimettere a posto i playground cubani, a formare i più giovani alla pallacanestro. Un assist alla ricomposizione dei rapporti tra i due Paesi. Tre mesi dopo il presidente degli Usa e Raul Castro concordavano l’apertura delle reciproche ambasciate a Washington e nella capitale cubana e sono salpati voli tra le due capitali. Tra qualche giorno lo stesso Obama sarà a L’Avana, per la prima visita ufficiale di un presidente americano da 88 anni a questa parte. E per l’occasione siederà in tribuna per l’amichevole tra i Tampa Bay Blue Rays, franchigia della Major League Baseball e la Nazionale cubana. Un’altra palla, anzi una pallina, per abbattere del tutto quel muro. Ma il segnale di apertura nel calcio e l’esibizione di baseball davanti agli occhi di Obama e Castro non risolve problemi strutturali tra i due Paesi anche nello sport, storture di un passaggio epocale.

Per esempio, la Major League Baseball e il governo cubano cercano una soluzione per la normalizzazione dei trasferimenti degli atleti dell’Isola negli Stati uniti. Che sono tanti, perché nella Mlb giocano attualmente 27 cubani, tra cui superstar come Yeonis Cespedes (New York Mets), con un guadagno complessivo da 100 milioni di dollari l’anno, mentre lo stipendio di un giocatore cubano in patria si aggira sui 200 dollari (20 dollari lo stipendio medio a Cuba). Forse andrà in porto l’ultima idea, un permesso di soggiorno per la durata del campionato di baseball per i giocatori caraibici, che per disposizioni governative devono far ritorno a Cuba al termine del torneo, per poi giocare nel campionato nazionale. L’obiettivo è colpire le organizzazioni criminali che gestiscono la maggior parte degli espatri degli atleti, alcuni addirittura sequestrati in passato come Yasiel Puig, oggi ai Los Angeles Dodgers, finito nelle mani di un cartello criminale, poi rilasciato dopo pagamento di un riscatto.