Salendo il monte Pizzuta, che svetta fino a 1.300 metri dominando la piana degli Albanesi, a meno di trenta chilometri da Palermo, il colpo d’occhio toglie il fiato. Il verde intenso del bosco e l’imponenza dei campi a valle s’intrecciano con il filo rosso di una memoria collettiva che si rinnova per evitare l’oblio: da quassù è impressionante la vista del memoriale di Portella della Ginestra col sasso di Barbato che tiene vivo il ricordo della strage del primo maggio del ’47 con le sue torbide trame tra mafia, Stato e banda Giuliano, mentre gli aridi terreni con gli alberi di prugne abbandonati, lungo la strada provinciale che corre verso San Giuseppe Jato, appaiono come metafora di una Sicilia in perenne dicotomia, tra riscatto e rassegnazione. Eppure in questo lembo di terra, dall’Alto Belice a Monreale fino alla terra di Pirandello, è in corso una rivoluzione che attentati e intimidazioni non sono riusciti a fermare. Si chiama impresa sociale: si fa nei poderi dove un tempo il capomafia Totò Riina dirigeva i summit mafiosi, nelle terre dove Bernardo Brusca costruiva la cantina vinicola per riciclare il denaro sporco dei corleonesi e nei luoghi dove Bernardo Provenzano viveva prima di darsi latitante per 43 anni.

IN QUELLE TERRE INCOLTE, nei casolari dove si eseguivano le esecuzioni degli «infami», negli appezzamenti dove la regola era lo sfruttamento, la parola d’ordine è legalità: qui si producono pomodori, ceci, grano, olive e vino, come quello commercializzato con l’etichetta Centopassi, nel nome di Peppino Impastato. Nelle masserie diroccate, dove i capimafia pianificavano omicidi e lupare bianche, confiscate dallo Stato ora sorgono due agriturismi. Produzioni biologiche, trasformazione, commercializzazione e servizi chiudono una filiera che le cooperative sociali hanno saputo realizzare grazie all’intuizione di Libera, l’associazione fondata da Don Ciotti, e al Consorzio sviluppo e legalità di cui fanno parte otto comuni del comprensorio che hanno fatto rete proprio per riutilizzare e rendere produttivi i beni che un tempo era della mafia: Altofonte, Camporeale, Corleone, Monreale, Piana degli Albanesi, Roccamena, San Cipirello, San Giuseppe Jato. Un ingranaggio che negli anni si è allargato diventando sistema.

DAL 2008 il consorzio Libera Terra funge da cabina di regia per nove cooperative. Quelle siciliane: Placido Rizzotto, Pio La Torre, Beppe Montana tra Catania e Siracusa, Rosario Livatino a Naro (Ag), Rita Atria a Castelvetrano (Tp). E poi «terre joniche» di Isola Capo Rizzuto e Valle del Marro in Calabria nei beni sottratti alla ‘ndrangheta, «le terre di don Peppino Diana» a Castelvolturno tolte alla camorra e la cooperativa Pugliese nella zona di Mesagne, nei beni confiscati alla sacra corona unita. Una sfida alle mafie sul terreno della legalità e dello sviluppo, che le cooperative combattono attraverso la creazione di posti di lavoro, l’applicazione dei contratti, il rispetto delle norme sulla sicurezza, il recupero di terreni abbandonati, la messa in opera di produzioni biologiche di qualità. Un investimento innanzitutto sociale, in territori difficili, basato su principi di solidarietà e condivisione di un progetto che è di tipo etico oltre che imprenditoriale perché ha l’obiettivo di creare valore umano e produttivo nelle zone depredate dalle mafie. E se una decina d’anni fa per i soci e i lavoratori era complicato persino indossare le magliette con la scritta Libera Terra quando giravano per le strade dei paesi, «adesso – racconta Valentina Fiore, amministratore del Consorzio – c’è persino chi bussa alla nostra porta chiedendoci se può averne una».

IL CLIMA È MENO OSTICO. L’ultimo attentato in Sicilia a un bene confiscato risale al 2006. «Il contesto è mutato, anche se c’è ancora tanto lavoro da fare – afferma Fiore – Adesso anche i giovani di queste zone si rivolgono a noi per lavorare, un tempo non succedeva». Il consorzio riceve circa 300 curricula all’anno da persone in cerca di lavoro. Chi viene assunto nel sistema delle cooperative firma un contratto che include una clausola che impone un comportamento etico e l’impegno a tenersi lontano da qualsiasi situazione che possa ledere i principi consortili. Al primo bando per la formazione della Placido Rizzotto, ricorda Lucio Guarino, direttore del consorzio Sviluppo e legalità, «si fecero avanti 100 ragazzi, nessuno originario dell’Alto Belice».
Quattro anni dopo, era il 2005, si candidarono in 300 per far parte della «Pio La Torre», quasi tutti provenienti da San Giuseppe Jato, Altofonte, San Cipirrello. Le selezioni, sotto l’egida della Prefettura, sono ferree. Tredici anni fa, il Consorzio sviluppo e legalità revocò la concessione a due cooperative «perché – ricorda Guarino – non davano garanzie di legalità». «Facciamo controlli annuali – aggiunge – sono rigorosi. Controlliamo bilanci, soci e lavoratori. Il rischio di infiltrazioni è sempre attuale».

LE COOP LIBERA TERRA gestiscono in totale 1.400 ettari di beni agricoli confiscati in 39 comuni. Danno lavoro a 150 persone, metà delle quali sono soci. Le attività hanno permesso al sistema delle cooperative di accantonare l’anno scorso riserve indivisibili per quasi 4 milioni di euro a fronte di un capitale sociale di 197.474 euro. I prodotti a marchio Libera Terra sono una novantina, tra food e wine. In Italia vengono distribuiti su vari canali, il principale è quello della grande distribuzione. Il fatturato ammonta a circa 7 milioni di euro all’anno, il 5% viene realizzato all’estero grazie alla vendita dei prodotti in diversi mercati. Vino, olio, conserve, farine e prodotti rigorosamente bio sono trasformati col marcio Libera Terra: sbarcano in Germania, Svizzera, Regno Unito, Olanda, Spagna, Francia, Norvegia, Irlanda e Lussemburgo. Vendite vengono realizzate anche in Russia, negli Stati Uniti e in Canada; un altro importante canale di commercializzazione è l’estremo oriente con i prodotti che arrivano nelle tavole dei consumatori di Giappone, Singapore e Hong Kong.

PER IL LORO ALTO VALORE ETICO e sociale le botteghe dei saperi e dei sapori rappresentano certamente i presidi sul territorio più significativi del sistema. Quella dal più alto valore simbolico è nel cuore di Corleone, nel cortile Colletti. Tanti anni fa era la residenza dei familiari del capomafia Binnu Provenzano, da un po’ di tempo è una bottega di generi alimentari dove si possono acquistare e degustare i prodotti provenienti dalle terre del Consorzio sviluppo e legalità, gestite dalle cooperative sociali. Si tratta di uno dei primi immobili sequestrati: era il 1984. Nonostante fosse sotto sequestro, la madre di Provenzano, durante la latitanza del figlio, fu capace di fare costruire altri due piani, trasformando la casa in una palazzina di 240 metri quadrati. Fu acquisita al patrimonio dello Stato e dunque dal comune di Corleone otto anni fa e ristrutturata con i fondi del Pon sicurezza, per 55.200 euro. La bottega, luogo d’incontro per i giovani, è gestita dalle cooperative ‘Placido Rizzotto’, ‘Lavoro e non solo’, ‘Pio La Torre’. Nel cortile, a pochi metri dal locale, vive ancora il fratello di Bernardo Provenzano.
A qualche km di distanza, in due immobili confiscati a Totò Riina, c’è il centro agrituristico Terre di Corleone, realizzato con un investimento di 626 mila euro, mentre un laboratorio per il confezionamento dei legumi, prodotti in altri campi confiscati, sorge in un appezzamento sottratto dallo Stato al capo dei capi. I vini che gli avventori possono trovare nell’agriturismo di Corleone arrivano da un altro bene confiscato, questa volta a Bernardo Brusca. Siamo a San Cipirrello, una trentina di chilometri da Corleone: quell’immobile usato dai mafiosi ora è uno stabilimento enologico (404 mila euro l’investimento) dove vengono trasformate le uve di qualità prodotte nei vigneti del Consorzio sviluppo e legalità.

VINI DISPONIBILI anche nell’agriturismo Portella della Ginestra, ristrutturato con 426mila euro: in origine era un baglio del ‘700 che Brusca usava come casa di campagna e deposito di attrezzi da lavoro, in questo luogo, che si trova a poche centinaia di metri dal memoriale di Portella, furono girate alcune scene del film sul bandito Salvatore Giuliano. Di fronte all’agriturismo c’è un frutteto, anche questo su un terreno tolto alla mafia, mentre salendo verso il memoriale in un altro appezzamento i lavoratori di Libera Terra hanno drenato il terreno per le nuove colture, dopo avere realizzato il raccolto di ceci. Come centro di stoccaggio delle merci le cooperative Libera Terra si avvalgono della cantina Kaggio, un tempo in possesso di Totò Riina. Confiscata più di 20 anni fa, è diventato un centro aziendale grazie a un investimento, sempre con fondi del Pon sicurezza, pari a 2 milioni e 77 mila.