Il pallottoliere piange. Dopo la sbornia d’ottimismo di due giorni fa, ieri mattina i conti hanno sedato l’euforia. Al Senato quota 161 è lontana. Il leader della Lega Matteo Salvini capisce al volo e dichiara secco: «Conte non ha la maggioranza. Altrimenti non si sarebbe preso due giorni e sarebbe venuto in aula oggi». È così. Per la maggioranza mancano una decina di voti e non sono pochi. La componente del gruppo Misto Maie da ieri ha cambiato nome aggiungendo la formula «Italia 23» per apparire più appetibile. Ma le truppe per ora non lievitano.

I SENATORI PRONTI a votare la fiducia cresceranno di numero, non si limiteranno ai 151 accertati ieri. Palazzo Chigi è ottimista ma superare l’asticella non è facile. Il governo ce la farà comunque: basta la maggioranza relativa, non serve quella assoluta, e il semaforo verde lo accenderà proprio Matteo Renzi, con l’astensione di Italia viva. Quasi certamente Giuseppe Conte otterrà quel «voto in più», che a norma di Costituzione gli consentirà di andare avanti.
Quello del Rottamatore non è certo un regalo.

È in parte una mossa obbligata, dopo aver fallito il colpo contro Conte, in parte un calcolo a freddo. Renzi non riuscirebbe a portarsi dietro tutto il gruppo votando la sfiducia a fianco della destra. Le perdite potrebbero essere cospicue e si riaffaccerebbe il rischio di una rottura con il leader del Psi Riccardo Nencini, che forse voterà la fiducia e forse no ma garantisce comunque di non ritirare il simbolo che permette a Italia viva di avere il gruppo a palazzo Madama. L’astensione è quindi doverosa. Ma non c’è solo questo. Iv sta cercando di rientrare in gioco, contando su quella parte del Pd, particolarmente forte al Senato, che avrebbe preferito non chiudere tutte le porte all’ex segretario.

Per tutto il giorno i renziani hanno bombardato le agenzie con dichiarazioni possibiliste. «Se Conte scioglie i nodi noi ci siamo», dichiara per esempio il capo dei senatori Davide Faraone. I senatori del Pd più vicini a Renzi fanno discretamente da sponda. L’obiettivo comune è costruire uno scenario che accrediti la possibilità di un «secondo tempo» ancora tutto da giocare se Conte non otterrà la maggioranza assoluta.

È UNA POSIZIONE minoritaria nella maggioranza. I 5 Stelle, LeU e i vertici del Pd sono ancora convintissimi che con Italia viva le possibilità di dialogo sono chiuse, anche se il vicesegretario dem Andrea Orlando, prima della riunione dei deputati, qualche spiraglietto in più del giorno prima lo schiude: «In politica mai dire mai ma ricucire ora non si può». Però aggiunge che «con un voto in più si evita la crisi ma non si può pensare di governare».

È un segnale inviato a Conte perché il fronte comune contro il dinamitardo di Rignano può mascherare ma non risolvere una crisi nella maggioranza che esiste a prescindere da Matteo Renzi. Di fronte ai deputati il segretario dem Nicola Zingaretti ha cercato di chiarire le cose: «Noi abbiamo già dato. Siamo stati i primi a chiedere una ripartenza, perché il governo si rinnovasse e rilanciasse. Ora dobbiamo vedere se si costruiscono le condizioni innovative per un programma di legislatura».

È l’eterno braccio di ferro tra un Pd che chiede di rivedere linea, struttura e composizione del governo, senza aver affatto rinunciato al Conte ter di nome o di fatto, e un presidente del consiglio che invece non nasconde l’intenzione di usare la sfida con Renzi per modificare il meno possibile le cose.
Il nodo aggrovigliatissimo andrà sciolto, ma solo dopo il passaggio chiave di martedì al Senato. Anche senza maggioranza assoluta Conte è deciso ad andare avanti. Il Quirinale lo dovrebbe consentire. In fondo non sarebbe certo il primo «governo delle astensioni». In questo caso, però, subito dopo il voto sarebbe proprio il partito astensionista a chiedere con le opposizioni le dimissioni del premier: fa una certa differenza.

IN OGNI CASO il governo proseguirà la navigazione e avrà qualche settimana a disposizione per rendere reali quei «Costruttori» che oggi tali non sono. Se ce la farà sarà quell’«allargamento della maggioranza» che invoca Zingaretti e il governo potrà tentare il rilancio invocato dal Pd. In caso contrario difficilmente resisterà a lungo.