Impuniti, ogni anno buttiamo via quattro volte la quantità di cibo che basterebbe a sfamare gli oltre 815 milioni di persone malnutrite che abitano il nostro pianeta. Un dato che da solo dovrebbe farci vergognare tutti ed essere sufficiente per un intervento immediato. E invece dobbiamo aggiungere anche l’alto prezzo che paghiamo sia in termini economici – solo in Italia ognuno di noi getta nella spazzatura di 210 euro l’anno – sia e soprattutto ambientali. Lo spreco alimentare contribuisce (e non poco) all’alterazione del clima, è responsabile della riduzione della disponibilità d’acqua e di una buona parte del consumo di suolo fertile.

Per meglio rendere l’idea: con il 7 per cento delle emissioni totali di gas serra, se lo spreco di cibo fosse una nazione, sarebbe al terzo posto dopo Cina e Stati Uniti nella classifica degli stati emettitori. Per di più, usa inutilmente il 28 per cento della superficie agricola mondiale (1,4 miliardi di ettari) mentre consuma una quantità d’acqua pari al flusso del fiume Volga.

Come abbiamo fatto a perdere il senso e il valore del cibo? Accettiamo lo spreco come ingranaggio del sistema, non ci facciamo nemmeno più caso, è necessario. Ce lo conferma anche l’ultimo report Ispra, pubblicato il 16 novembre scorso, che evidenzia come lo spreco alimentare sia un fenomeno generato dalla «strategica produzione di eccedenze, necessaria alla sopravvivenza dei macrosistemi agroindustriali di massa» che governano tutta la filiera.

Siamo arrivati a cifre da capogiro: negli ultimi 55 anni il surplus è cresciuto del 77 per cento ed è destinato ad aumentare del 174 per cento entro il 2050, mentre il fabbisogno crescerà, nello stesso periodo, solo del 2,20 per cento (Ispra 2017).

Sono numeri che ribadiscono come il mito della crescita infinita non faccia altro che svuotare e indebolire il pianeta di risorse, mentre accentua le disuguaglianze. Combattere lo spreco significa quindi indirizzarsi verso un diverso paradigma produttivo e distributivo.

Con filiere corte biologiche e locali, ad esempio, le perdite si abbattono fino ad arrivare al 5 per cento, contro il 30-50 per cento della filiera di grande scala e globalizzata. Ancora, chi si rivolge a reti alimentari alternative (Gas, vendita diretta, agricoltura supportata da comunità) spreca, in media, il 90 per cento in meno rispetto a chi usa solo canali convenzionali.

Assicurare il diritto alla sovranità alimentare non significa dunque produrre di più, ma diffondere educazione alimentare, sostenere produzioni ecologiche e canali di distribuzione diretti e solidali. In poche parole, abbattere gli sprechi.