Molto vi sarebbe da discutere su legittimità e merito della decisione della Corte di dichiarare incostituzionali alcune parti del famigerato Porcellum, precludendo la possibilità di tornare alle urne senza un intervento di sutura da parte del parlamento. In ogni caso, la sentenza non ha fatto che sancire quel che la classe politica e gli italiani sapevano da un pezzo. La legge elettorale in vigore era una vergogna: costituzionale e democratica. Di essa porta la responsabilità il centrodestra. Ma ne è corresponsabile il centrosinistra, che nel 2005 avrebbe dovuto alzare le barricate e che si contentò invece di un’opposizione di maniera. Fosse stato più serio, già all’indomani della risicata vittoria elettorale del 2006 avrebbe dovuto porre il cambiamento del Porcellum in cima all’agenda e impegnarsi a chiedere nuove elezioni con una nuova legge. Invece ha sollevato sempre la questione, ma ha elaborato proposte arzigogolate e improbabili onde conciliare gli interessi del centrodestra coi suoi (salvo nascondersi dietro la foglia di fico del «noi vorremmo il doppio turno»), con l’effetto di lasciare le cose come stavano. Questa legge gli faceva comodo, la prospettiva di approfittarne per conquistare il governo non lo turbava di certo.
Adesso sono iniziate le speculazioni politiche. Di alcune non val la pena discutere. Che Grillo speculi, è ovvio. Né stupisce che speculi Berlusconi, che l’ha sempre fatto su tutto. Che ci speculino pure Renzi e i renziani, denunciando il ritorno alla prima Repubblica e al proporzionale, è disgustoso. Non fosse che per loro votare col Porcellum era l’ideale. Rendeva più agevole il licenziamento del governo Letta, promettendo di vincere le elezioni. C’è ragione di pensare che facessero male i loro calcoli e che l’esito sarebbe stato l’eterno ritorno di Berlusconi. Ma forse anche questa possibilità era nel conto. Fosse andata male, loro si sarebbero intanto impadroniti del Pd e, magari, forti del loro moderatismo, avrebbero trovato un lucroso modus vivendi col centrodestra. Adesso Renzi è costretto a giocare di rimessa. Per uno che vuol «asfaltare» gli avversari – di nuovo una parola democraticamente indecente! – si prospetta qualche complicazione.
Proviamo invece a ragionare. Il problema da risolvere con urgenza è adottare una legge elettorale che consenta al paese di avere un governo legittimo, che ne rappresenti la varietà e ne affronti seriamente i problemi. Di sicuro non serve una legge che consenta di sapere la sera delle elezioni chi governerà. Come insegna il caso tedesco, questa è una sciocchezza. Ma non serve neanche una legge che favorisca la frammentazione all’estremo della rappresentanza, a beneficio di capricci, e pretese, della classe politica. Serve una buona legge e le soluzioni possibili non mancano. Va da sé che, data l’attuale conformazione tripolare del sistema dei partiti e escludendo premi di maggioranza, è difficile oggidì inventarsi una legge che escluda accordi di coalizione dopo il voto. Purché tali accordi siano stipulati in buona fede, e rispettando la dignità di tutti i partner, non ci sarebbe in realtà da scandalizzarsene. Né sarebbe tanto meno scandaloso (con buona pace del Capo dello Stato, che non si capisce perché si pronunci anche su questo) un qualche accorto ritorno alla proporzionale.
Nell’intervista di Cohn Bendit, apparsa sul manifesto, era contenuta un’affermazione importante. Viviamo tempi difficili, che non è possibile affrontare confermando le tradizionali divisioni politiche. Benché destra e sinistra (o centrosinistra) convergano (abbastanza) sull’ortodossia neoliberale, le applicazioni che ne danno sono diverse e altamente divisive. Il problema è invece trovare intelligenza, energie, capacità politica proprio per superare simili divisioni. E soprattutto l’ortodossia che le provoca, la quale detta politiche di cui profitta una minoranza di privilegiati a spese delle stragrande maggioranza. Il collasso della crescita lo stanno pagando lavoratori dipendenti e pensionati, ma lo pagano pure i ceti medi indipendenti.
La fuoruscita dall’ortodossia neoliberale richiederebbe invece qualcosa che somigli al compromesso «socialdemocratico» (che tale invero non era) che ispirò le politiche condotte tra gli anni 40 e gli anni 70 sia dai partiti moderati, sia da quelli di sinistra. Era un compromesso imperfetto. Produsse, specie nella sua variante italiana, la sua buona dose di disuguaglianze e ingiustizie. Ma i suoi effetti sono stati di gran lunga preferibili a quelli che le società europee hanno sopportato nell’ultimo quarto di secolo. Se si cominciasse a pensare alla legge elettorale non come uno strumento per dividere, nel nome di una qualche stabilità di governo, bensì come un’opportunità per cominciare a unire il paese su alcune scelte essenziali per il suo futuro non sarebbe affatto male.