Anche solo poche note suonate al pianoforte, possono automaticamente far sperare, se non pensare, che la sua voce stia per cominciare a farci compagnia.
Nina Simone, nata a Tryon in North Carolina nel febbraio del 1933, già all’età di tre anni aveva cominciato ad avvicinarsi all’arte del pianoforte. Di lezioni, poi, ne avrebbe prese molte, e avrebbe cominciato presto a suonare prima i grandi classici, come Mozart, Beethoven, Bach, Debussy, e poi jazz e blues nei night club di Atlantic City negli anni ’50. E, naturalmente, sarebbe arrivata poi a cantare, con la sua voce unica, potente e morbida, profonda.
Allontanandosi definitivamente dalla musica classica, nel 1957 avrebbe registrato il suo primo disco, Little Girl Blue, che presentava anche My Baby Just Cares for Me e I Loves You, Porgy, canzoni che l’avrebbero fatta entrare per sempre tra i grandi della musica nera.

CARTA VETRATA
Ma la storia importante oggi è questa: la casa in cui è nata e cresciuta con i genitori e 6 fratelli, ha oggi ormai quasi novant’anni e, da qualche tempo, ne è finalmente cominciato il restauro dopo anni di abbandono. Lo scorso 2 maggio, infatti, sono arrivati, grazie all’associazione Hope (Hands on Preservation Experience), parte del National Trust for Historic Presevation e grazie al supporto di Fund II Foundation (www.fund2foundation.org), che si occupa di preservare la cultura afroamericana, alcuni volontari.
Si sono presentati con carta vetrata, sabbiatrice e vernice per cominciare a lavorare agli esterni e rimettere a nuovo la piccola casa al 30 di East Livingstone street a Tryon, di soli 61 metri quadri. Sarà un restauro totale che avrà bisogno di lavori per circa i prossimi 18 mesi, sia per il recupero di tutti gli esterni e interni, sia per la stabilità stessa dell’edificio.
È cominciato tutto quando, come aveva riportato anche il New York Times nel 2017, quattro artisti afroamericani (lo scultore Adam Pendleton, il pittore Rashid Johnson, la regista Ellen Gallagher e l’artista astratta Julie Mehretu) si erano riuniti per acquistare, per 95mila dollari, la casa di Nina Simone, e proteggere quindi la sua eredità.
Dice, lo scultore Adam Pendleton, di averlo fatto «con il desiderio che il posto sia trasformato in qualcosa di più di un relitto. Vogliamo che diventi uno spazio per coltivare il presente e le arti».

RIUNIONI
Con il supporto di World Monument Fund (www.wmf.org) e altre organizzazioni, il National Trust for Historic Preservation ha assunto un architetto per lavorare sulla stabilità della casa, e si continueranno a tenere riunioni con tutti i partner, gli artisti e i musicisti coinvolti per suggerire e ipotizzare l’uso finale dell’abitazione.
L’acquisto aveva da subito colpito il National Trust, che aveva da poco iniziato anche una campagna da 25 milioni di dollari per proteggere e salvare luoghi storici legati alla storia nera. Proteggere luoghi come la casa di Nina Simone quindi, aiuterà anche a raggiungere un certo equilibrio nella salvaguardia del panorama culturale afroamericano. Secondo il National Trust, infatti, se solo il 2% di parchi nazionali, monumenti e luoghi vari celebrano e sono intitolati a donne, meno del 6% di quel totale onora donne afroamericane.
«Il valore delle donne afroamericane nel jazz e nella lotta per i diritti civili è spesso sottostimato, e così continua a esserci una lotta perché siano riconosciute a livello nazionale», sostiene Brent Leggs, direttore della campagna African American Cultural Heritage Action Fund.
Nina Simone è stata raccontata nel 2015 da due documentari: What Happened, Miss Simone?, realizzato da Netflix e il film The Amazing Nina Simone di Jeff L. Lieberman. Aveva conquistato, durante la sua intera carriera, la nomination a 2 Grammy Awards e, solo nel 2000, aveva vinto il premio del Grammy Hall of Fame per l’interpretazione di I Loves You, Porgy. Le erano stati consegnati poi tre riconoscimenti onorari dal college del Massachusetts Amherst, dal Malcolm X College di Chicago, e proprio da quel ben noto Curtis Institute of Music di Philadelphia che, quando era ancora ragazzina le aveva chiuso gentilmente la porta in faccia. Simone è stata alla fine anche riconosciuta dal North Carolina Music Hall of Fame. Ma solo nel 2009, sei anni dopo la sua scomparsa.
Sicuramente ha scritto un numero di canzoni di grande valore civile, come Mississippi Goddamn che parlava dell’omicidio di Medgar Evers in Mississippi e dell’attacco a una chiesa battista in Alabama dove 4 bambini furono uccisi e molti altri feriti nello scoppio di una bomba. Questa canzone, insieme a Four Women, Old Jim Crow, Backlash Blues e To Be Young, Gifted and Black, diventarono degli inni per il movimento per i diritti civili.
Ha registrato più di 40 album durante i suoi cinquant’anni di carriera e la sua particolare fusione di gospel e pop con la musica classica le ha fatto guadagnare l’appellativo di High Priestess of Soul, titolo che la rese così un simbolo della lotta per la parità di diritti negli Usa. Presentandosi al pubblico del Carnegie Hall di New York nel 1964 aveva introdotto la canzone Mississippi Goddamn, definendola come «il tema musicale di uno spettacolo ancora da scrivere», fitto di dolore per tutte le delusioni e sopraffazioni accumulate in quanto nera.
E infatti non si era mai dimenticata che, per la sua prima apparizione sul palco della libreria di Tyron quando aveva solo 11 anni, i suoi genitori non avevano ricevuto il permesso di sedersi in prima fila.

LA RISPOSTA
Nina, non ancora teenager, aveva risposto che si rifiutava di suonare se i suoi genitori non avessero avuto il permesso di sedersi in prima fila. Aveva detto «quando la storia dei diritti civili fu finalmente raccontata, allora lì, all’improvviso, sentii la capacità di poter essere ascoltata su quello che avevo provato per tutta la vita. E quando dei bambini furono uccisi in una chiesa, allora lì mi sono solo seduta e ho scritto Mississippi Goddamn. È una canzone molto commuovente e violenta. Perché è cosi che mi sono sentita per tutta la vita».
Come quando a 18 anni si era preparata – con più di un anno di studi – per l’ingresso al prestigiosissimo Curtis Institute of Music di Philadelphia e, ovviamente non fu mai ammessa. Avrebbe detto inseguito: «Sapevo di essere stata abbastanza brava. Ma non avevo ancora capito che andò così perché ero nera».
Anticonformismo e turbolenze varie sono sempre andati di pari passo nella sua vita e carriera. Nel 1985, ad esempio, aveva tentato di uccidere un impiegato di una casa discografica perché, secondo Nina, le aveva rubato delle royalties. Si era sposata nel 1961 con Andrew Stroud, un detective della polizia di New York che sarebbe poi diventato il suo manager e, solo per pochissimo tempo, con Don Ross nell’1985. Morta in Francia, a Carry-le-Rouet, il 21 aprile 2003, ha continuato a salire sui palchi del mondo fino a quando la salute glielo ha permesso.