Dinanzi alla tragedia di Genova il governo approfitta dei cadaveri e delle macerie ancora calde per sperimentare gli effetti del populismo penale per colpire il pubblico e scatenare le emozioni più regressive. Un tempo si distingueva tra la comunicazione istituzionale e la comunicazione politica.
Le istituzioni, in conformità alla logica funzionale propria di autorità pubbliche chiamate a svolgere compiti di governo con ricadute dai risvolti generali, avrebbero dovuto parlare il linguaggio della sobrietà, fornire un’informazione rigorosa per lasciare invece alla politica il momento della contesa, da affrontare con il tempo della amplificazione retorica.
Questa demarcazione è crollata perché il populismo di governo semplifica, manipola, spaccia illusioni e non concepisce neppure l’idea di una autonoma funzione affidata alla copertura del ruolo istituzionale. Non esiste alcun codice specifico delle istituzioni per chi riduce il governo a pura comunicazione, infondata è poi ogni pretesa di autonomia dei saperi, delle competenze. Tutto ciò che resta delle differenziazioni funzionali tipiche di una società complessa, deve chinarsi dinanzi al codice della politica, che è poi in sostanza il chiacchiericcio dell’antipolitica che predica il verbo insulso per cui uno vale uno. Dai vaccini alle questioni della tecnica delle costruzioni, dai numeri delle statistiche alle tragedie pubbliche, il governo ricorre alla neolingua populista della banalizzazione ad oltranza, della caccia al capro espiatorio, della guerra al nemico occulto che ostacola l’ansia di giustizia.
Il quartetto al potere che a Genova si è presentato dinanzi ai media, composto dal presidente del consiglio, con a fianco i suoi due vice e il ministro dei trasporti, intende affrontare l’emergenza con la simulazione di una veloce volontà di punire. La tragedia reale si tramuta in commedia, con il governo che recita secondo lo spartito dopato del populismo per risultare accattivante anche in un contesto così macabro. L’avvocato degli italiani accantona ogni separazione dei poteri. Giocando al tempo stesso il ruolo di accusatore implacabile e la parte di giudice inflessibile, annuncia che il colpevole è stato già scovato.
Il governo del cambiamento, senza alcun bisogno di attendere accertamenti, risultanze di inchieste, perizie tecniche, ha avviato le procedure per la revoca sommaria delle concessioni alla società che gestisce le autostrade in combutta con la vecchia politica. Il professore di diritto privato che guida l’esecutivo dimentica le nozioni più elementari vigenti in materia contrattuale e trascende i cavilli nascosti nelle pieghe dei regimi delle concessioni. Lo fa per poter vendere al pubblico distratto la sensazione di una energica battaglia in corso contro il tempo e le forme per soddisfare il genuino desiderio di vendetta sprigionato dalla gente.
Il ministro Salvini è l’espressione più eclatante della degenerazione della comunicazione istituzionale in alluvionale e ossessiva propaganda permanente alla ricerca di un nemico da smascherare. Con i grigi rapporti formali del Viminale sostituiti da tweet coltivati ad arte quali postmoderni surrogati dei manganelli, egli ha aggiunto alle venature di populismo penale dei suoi colleghi anche un tocco di gretto materialismo padano rivendicando per un giorno l’esonero dal pagamento dei pedaggi sulle autostrade.
Le speculazioni più sfrenate, studiate come momenti di un marketing del macabro utile per trarre qualche consenso anche nel momento del dolore, e il vile denaro sottratto ai caselli evocato come risarcimento in contanti del nanocapitalista nordico sempre oppresso dallo Stato fiscale, rivelano l’assoluta nullità della classe (anti) politica al potere. Un nulla pericoloso, però. Che trasferisce il codice dissolutivo del populismo in ogni cosa complessa e quindi determina una deriva nichilistica. Invece di una critica radicale dell’ideologia quasi trentennale delle privatizzazioni, e della cieca distruzione di ogni governo pubblico dell’economia, il populismo celebra gli effetti miracolosi della flat tax ovvero dell’ulteriore riduzione delle risorse dello Stato già minimo.