«Questa gente è ossessionata dal passato. Si sente nell’aria qui dentro». Come annota mentalmente il più giovane e impulsivo di una squadra di investigatori, commissari e ispettori che presidia senza sosta la scena del crimine, i fantasmi di ciò che è stato e si vorrebbe dimenticare, l’eco sinuoso di segreti inconfessabili e di ancor più torbide verità, tutto ciò si è steso come un manto ad avvolgere il più classico dei delitti della camera chiusa. Solo che in questo caso il luogo che nello spazio di pochi giorni ha fatto da sfondo ad una serie di morti misteriose – forse suicidi, forse omicidi – non è una singola stanza, ma un intero edificio: un palazzo borghese della calle Santa Fe, una strada tranquilla e silenziosa di una zona residenziale del nord di Buenos Aires. Oltre a far luce su quanto è realmente avvenuto nell’edificio, le indagini condurranno perciò a un risultato solo a prima vista inatteso, quello di spingere sotto i riflettori anche tutto ciò che si cela dietro l’austera facciata di rispettabilità di quanti vi abitano.

PUBBLICATO NEL 1955 nella collana El Séptimo Círculo, diretta presso l’editore Emecé da Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares, La morte arriva in ascensore è ora proposto per la prima volta ai lettori italiani nella collana Água viva di Rina editrice (pp. 186, euro 18, traduzione di Francesca Bianchi, Prologo di Ricardo Piglia, Postfazione di Francesca Lazzarato). Si tratta del primo romanzo «giallo» firmato da María Angélica Bosco, figura significativa della narrativa e del giornalismo culturale locale e prima autrice argentina a cimentarsi fino in fondo con il poliziesco, genere che l’avrebbe resa celebre nel Paese e con il quale si misurerà fino agli anni Ottanta.

María Angélica Bosco

Cresciuta in una famiglia borghese di origine italiana in una zona bene di Buenos Aires, Bosco decise di riprendere a scrivere, attività che aveva abbandonato dopo il matrimonio, malgrado avesse pubblicato delle raccolte di racconti da ragazza, solo in seguito alla rottura con il marito, avvenuta quando era sulla soglia dei quarant’anni, all’inizio degli anni Cinquanta. In seguito avrebbe scritto molto, anche per la radio e la tv, ma sarà la scelta del giallo, la stampa locale l’avrebbe ribattezzata «l’Agatha Christie argentina» malgrado non amasse particolarmente la scrittrice inglese, a farne per molti versi un’innovatrice.

L’AMBIENTE E IL CONTESTO che fanno da sfondo a questo suo affascinante debutto sembrano evocare in ogni caso almeno in parte l’immagine della metropoli porteña che l’esperienza personale e l’epoca vissuta dal Paese potevano offrire. In una stagione che annunciava il colpo di Stato che avrebbe deposto Perón, l’Argentina respirava al ritmo di una crescita che celava incertezze e timori. Senza contare che nella città costruita da generazioni di immigrati, prima e dopo la Seconda guerra mondiale si erano alternati gli ebrei in fuga dallo sterminio a nazisti e fascisti che scappavano dalle proprie colpe.

Un mondo che nel palazzo di calle Santa Fe, epicentro narrativo di La morte arriva in ascensore, assume le sembianze di figure di uomini e donne che sembrano inseguiti dal proprio incancellabile passato, si tratti di un amore che si vorrebbe riconquistare a qualunque costo come di un’infamia compiuta ai danni di chi era più debole e vulnerabile nel pieno del conflitto. Bosco, come sottolinea Francesca Lazzarato, ritrae «la realtà ibrida e conflittuale di una metropoli in cui si va esaurendo la prodigiosa spinta verso la modernità dei decenni precedenti, ma sempre connotata dalla presenza di correnti migratorie individuate anche attraverso il linguaggio che, oltre a definire l’appartenenza dei personaggi all’una o all’altra classe sociale, ne rivela anche i diversi luoghi di origine»: dalla Spagna alla Germania, all’Europa dell’Est.

 

MENTRE TUTTO INTORNO si agitano i fantasmi di una Buenos Aires dove alcune delle pagine già scritte del Novecento europeo vengono velocemente rielaborate e almeno altrettanto rapidamente dimenticate, nella quiete solo apparente del bel palazzo del barrio Norte va in scena un altro tipo di mistero. Nello spazio di un pugno di ore, solo pochi giorni perché si giunga ad individuare i responsabili di quanto è accaduto, si susseguono gli avvenimenti, disvelando ad ogni nuovo fotogramma un elemento già presente sulla scena ma di cui nessuna fonte di luce aveva fino a quel momento consentito di cogliere la presenza.

E tra tutti i personaggi è forse il corpulento commissario Santiago Ericourt, faccia larga, naso adunco e mento squadrato, a interpretare al meglio l’intuizione cui María Angélica Bosco affida la soluzione del caso, come il proprio esordio nel poliziesco. Lui che esaminando le carte dell’indagine a tarda ora, seduto alla sua scrivania davanti alla finestra, avrebbe giurato si trattasse di una notte d’inverno senza luna, per poi alzare di nuovo lo sguardo e rendersi conto che «una falce di luna calante era appesa in mezzo al nulla. Per ore avevo pensato che quella sera non ci fosse luna solo perché per me non era visibile».