A Berlino, tendenze e agoni dei russi moderni
«Vchutemas: un laboratorio russo della modernità, 1920-1930» al Martin Gropius Bau La mostra sottolinea la competizione tra costruttivisti, razionalisti e classicisti all’interno dell’«Atelier superiore d’Arte e Tecnica» fondato da Lenin nel 1920
«Vchutemas: un laboratorio russo della modernità, 1920-1930» al Martin Gropius Bau La mostra sottolinea la competizione tra costruttivisti, razionalisti e classicisti all’interno dell’«Atelier superiore d’Arte e Tecnica» fondato da Lenin nel 1920
Nell’esuberante autobiografia da lui stesso definita «romanzo della mia vita», Marc Chagall si rimproverava con una certa ironia di aver voluto fondare nel 1918 un’Accademia di Belle Arti nella sua città natale Vitebsk, «invece di starmene tranquillo a casa a dipingere». Alla luce degli insanabili dissidi scoppiati ben presto tra lui e i colleghi docenti Kazimir Malevic e El’ Lisickij, non sorprende certo che il pittore fosse incline a liquidare con perplessità mista ad amarezza quella breve e fallimentare iniziativa. Eppure, l’entusiasmo con cui il «compagno Chagall» – designato da Anatolij Lunacarskij commissario per le arti del governatorato di Vitebsk – si era messo all’opera è esemplificativo dell’improvvisa «febbre didattica» che aveva colto all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre finanche gli esponenti più appartati e visionari dell’avanguardia. E non importa che tra tutti il sognatore Chagall fosse decisamente il meno adatto a formulare leggi oggettive per l’elaborazione di forme inusitate, adatte alla nuova realtà socialista. Altre scuole (e altri insegnanti) avrebbero da lì a breve raccolto la sfida, prima tra tutte l’istituzione con cui si è soliti identificare tout court il coacervo delle varie istanze antiaccademiche, progressiste e avanguardiste che dominarono la scena degli anni venti in Unione Sovietica.
Fondato a Mosca il 18 dicembre 1920 con un decreto firmato dallo stesso Lenin, lo VChUTEMAS (acronimo per Vysshie chudozhestvenno-techinicheskie masterskie o Atelier superiore d’arte e tecnica) sorse in seguito alle proteste degli studenti contro i diktat classicisti all’epoca ancora imperanti nel curriculum degli studi architettonici. All’impostazione tradizionale, che prevedeva l’indefessa ricopiatura degli elementi propri agli ordini del passato, la nuova scuola-laboratorio sostituiva compiti ispirati alla libera sperimentazione con i concetti elementari astratti di spazio, volume, colore. Parallelamente, alla preparazione di costruttori chiamati per lo più a imitare gli stili importati dall’Europa doveva subentrare la formazione di artisti altamente qualificati, capaci di porsi alla testa – tanto nella progettazione urbanistica quanto nel disegno industriale – di una avanguardia creativa votata alla formazione di una via socialista alla modernità.
Merito indubbio della mostra VChUTEMAS Un laboratorio russo della modernità, 1920-1930 (allestita fino al 6 aprile presso il Martin Gropius Bau di Berlino) è quello di dar conto della dimensione plurale di una simile esperienza, dilatando così in un’ottica collettiva la prospettiva già aperta da esposizioni pur pregevoli, ma focalizzate su contributi paradigmatici di singoli protagonisti, come per esempio quella recente Il professor Rodcenko. Fotografie dallo VChUTEMAS che si è tenuta al Magazzino del Sale di Venezia. All’opposto, l’esposizione berlinese, curata dalla direttrice della sezione moderna del Museo statale di architettura A. V. Šcusev di Mosca Irina Cepkunova, tende a problematizzare l’identificazione corrente tra lo VChUTEMAS e il movimento costruttivista, sottolineando la coesistenza di tendenze decisamente conflittuali all’interno dell’istituzione moscovita. In effetti, la fiducia illuminista nella trasmissibilità del sapere e la dedizione condivisa da docenti e allievi alla comune causa rivoluzionaria non impedirono una competizione a tratti spietata tra gli esponenti delle varie correnti, in primis razionalisti e costruttivisti (Nikolaj Ladovskij, Mojsej Ginzburg), cui si aggiungevano i classicisti superstiti capeggiati da Ivan Sholtovskij, nonché l’atelier di «architettura sperimentale» diretto da Il’ja Golossov e Konstantin Mel’nikov. A determinare il profilo didattico della nuova scuola fu tuttavia l’opinione condivisa che l’architettura dovesse integrare al suo interno procedimenti attinti dalle altre arti, in particolare da scultura e pittura. Programmatico in questo senso è il modellino esposto nella seconda sala della Costruzione spaziale n. 5 di Rodcenko, assemblaggio dinamico di strutture lineari che rielabora elementi prelevati dalla pittura astratta e suprematista. Questo orientamento sintetico e interdisciplinare si rifletterà nell’organizzazione di corsi propedeutici biennali, comuni a tutti gli studenti e finalizzati allo studio di tre discipline fondamentali: spazio, volume e colore. Ispirandosi allo stesso spirito egualitario che vigeva allo VChUTEMAS, il percorso espositivo berlinese alterna ai compiti svolti dagli allievi gli schizzi più ambiziosi dei loro maestri.
Comune a questi progetti – oltre a una radicalità più o meno spiccata – è il destino cui sarebbero fatalmente andati incontro nel corso degli anni venti, ossia quello di restare pressoché tutti irrealizzati. Se alcuni lavori, come La città futura, o volante di Georgij Krutikov, escludevano fin dal titolo una loro immediata conversione in realtà, altri invece si distanziavano dall’utopia per confrontarsi apertamente con le occorrenze specifiche della topografia moscovita. È il caso della città-giardino, disegnata da Georgij Gol’c per il quartiere di Ostankino, oppure dello Stadio Rosso Internazionale di Michail Korshev, mai edificato a causa della conformazione poco favorevole del sito su cui sarebbe dovuto sorgere, ossia le Colline Lenin, o dei Passeri, a sud della capitale. Ma l’edificio forse più straordinario in quel ricchissimo «catalogo del possibile» che la mostra dispiega è l’Istituto di Biblioteconomia intitolato a Lenin che Ivan Leonidov ideò nel 1928 come progetto di laurea – un avveniristico centro polifunzionale allestito all’interno di una sfera suddivisibile in spazi differenti a seconda delle occasioni e delle esigenze.
Intorno al modellino leonidoviano – che rappresenta il fulcro e, in un certo senso, anche il punto di approdo della mostra – ruota una costellazione di schizzi altrettanto affascinanti, dal complesso alberghiero smembrato da Nikolaj Sokolov in una serie di deliziosi bungalow a forma di fungo, collegati da un passaggio sotterraneo e perfettamente mimetizzati nel verde, fino al grattacielo progettato da Vladimir Krinskij per piazza Lubjanka. Nei piani degli architetti moscoviti lo slancio ascensionale di nuovi arditi edifici avrebbe dovuto infatti sostituire quelle fughe prospettiche nello sconfinato spazio russo che tanto avevano colpito Walter Benjamin nella capitale sovietica («in nessun’altra metropoli europea troverete case tante basse e tanto cielo», scriverà nel suo Diario). Una visione avveniristica che sarà accantonata verso la fine del decennio, quando i docenti dello VChUTEMAS vennero paradossalmente accusati di non essere abbastanza fedeli al proprio tempo, ossia di disprezzare le reali esigenze del proletariato. Particolarmente deprecata era la loro tendenza a impiegare, nei peraltro mai realizzati edifici, materiali pregiati quali acciaio e vetro, sprecando così risorse che dovevano essere invece destinate esclusivamente all’industrializzazione a tappe forzate del paese. All’utopismo delle avanguardie era già subentrato quel pragmatismo che troverà nella pietra utilizzata con tanta larghezza dagli architetti dell’eclettismo staliniano la sua più tangibile incarnazione.
Nell’introduzione al catalogo, la curatrice sorvola con disinvoltura sulle pressioni politiche che nel 1930 portarono alla dissoluzione dello VChUTEMAS, affermando – non si sa se in omaggio al revival neostaliniano di recente in voga in Russia – che verso la fine del decennio molto architetti «guardavano ormai con occhio scettico alle proprie opere giovanili». Un eufemismo dietro il quale si nasconde una realtà ben diversa, ovvero quel «rifiuto da parte dello Stato dell’architettura in quanto arte» che era già stato stigmatizzato da Ladovskij nel ’24 in una lettera di protesta indirizzata a Lunacarskij. Verso la metà del decennio si era infatti andata delineando da parte delle autorità la tendenza a privilegiare il momento ingegneristico-costruttivo rispetto a quello creativo, nella convinzione che non di progettisti di città volanti avesse bisogno l’Urss, bensì di tecnici specializzati in grado di affrontare le sfide poste dalla pianificazione economica. Una deriva questa che troverà il suo compimento egli anni Trenta, con il ritorno a curricola di studi più settoriali, in aperta opposizione allo sperimentalismo interdisciplinare dello VChUTEMAS.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento