Nelle “sei contee” (l’Irlanda del Nord) le celebrazioni unioniste-lealiste in cui si ricorda la vittoria di Guglielmo d’Orange su Giacomo II nel lontano 1690, erano state vietate per via del Covid. Persino le logge orangiste avevano invitato la popolazione interessata a preparare barbecue privati piuttosto che assembrarsi attorno ai soliti imponenti ammassi di cataste di legno dati alle fiamme nella notte dell’11 luglio. 

Tuttavia, perlomeno una dozzina di falò sono stati accesi nella notte di sabato, e si sono verificati scontri con lanci di mattoni e molotov tra la polizia e giovani della comunità nazionalista-repubblicana al confine tra New Lodge e la protestante Tiger’s Bay a Belfast. 

Le pire incendiarie riportavano i soliti messaggi d’odio, tra cui la famigerata scritta KAT (Kill all taigs, “Uccidi tutti gli irlandesi”, e per “irlandesi” si legga “cattolici”). Sono stati poi bruciati vessilli con su il nome di Bobby Storey, figura storica dell’IRA deceduto il 21 giugno scorso. Di questi, uno dei più odiosi recitava: “Bobby Storey, cresciuto a west Belfast, bruciato nella lealista est Belfast”. 

Proprio il funerale di Storey aveva dato adito a polemiche per la partecipazione popolare di massa, contraria alle norme che vietano gli assembramenti. Le critiche sono ricadute anche sul vertice di Sinn Féin che ha preso parte alle esequie, esacerbando non poco gli animi della controparte, e inducendo di fatto molte persone a non rispettare i divieti la notte dell’11. 

Il movimento socialista repubblicano Soaradh, ritenuto il braccio politico della New IRA, ha intimato alla propria comunità di riferimento, di stare all’erta nei giorni a seguire, per il livello crescente di tensione che ogni anno si verifica in questo periodo. 

Nel frattempo, nelle 26 contee (la Repubblica), il 27 giugno scorso è stato formato il governo di coalizione tra i due partiti di centrodestra (Fianna Fáil e Fine Gael) e i Verdi, escludendo di fatto Sinn Féin, uscito platealmente vincitore dalle elezioni di febbraio. 

Il nuovo primo ministro, Micheál Martin, in controtendenza rispetto ai suoi predecessori, ha segnato un allontanamento dai principi base degli Accordi del Venerdì Santo del 1998 su cui si fonda il Processo di pace. Tali accordi prevedono che, qualora la maggioranza dei cittadini del Sud e del Nord lo desiderino, si debba tenere un referendum sulla riunificazione delle due Irlande. Martin ha definito “divisivo” ora il dibattito, dichiarando che “spingere per un referendum non è la strada da percorrere”. Un passo indietro non da poco rispetto agli ultimi anni.

Scontato il forte disappunto di Sinn Féin che ricorda come gli Accordi in questione siano un trattato internazionale e non v’è modo di aggirarli, e sottolineando che la richiesta di una data certa per il referendum è oramai pressante non soltanto da parte della propria base elettorale.

Sull’altra sponda del canale, in Scozia, è stato pubblicato un nuovo sondaggio shock secondo cui il sostegno all’indipendenza dal Regno Unito raggiunge il 54%. Lo stesso sondaggio parla di un consenso del 55% per lo Scottish National Party, che tradotto in dati parlamentari porterebbe a 74 dei 129 seggi disponibili. Al contempo, nel Regno Unito, un sondaggio condotto tra i conservatori parla di un 49% a favore dell’Indipendenza dell’Inghilterra dalla Scozia, considerata un fardello economico.

La situazione si fa dunque scottante, soprattutto con l’approssimarsi del 31 dicembre 2020, data ultima per i negoziatori per poter definire i dettagli dell’uscita dalla EU, che avverrà il 1 gennaio 2021.