Le regole passano e i dogmi si sgretolano, ma nel Movimento 5 Stelle resistono due punti fermi. Il primo è Luigi Di Maio, che dopo i flop elettorali in Abruzzo e Sardegna si dichiara intoccabile. Non vuole sentire chi tra i suoi gli fa notare di aver fatto collezione di incarichi: è deputato, si occupa di due ministeri, fa il vicepremier e il «capo politico» del M5S.

«Il ruolo del ‘capo politico’ si discute tra quattro anni, fino ad allora quello sarà l’incarico che mi ha dato il M5S», dice in una conferenza stampa convocata all’ultimo minuto a Montecitorio. Il secondo punto fermo è l’accordo con la Lega: Di Maio assicura che il contratto è in vigore. Il governo «va avanti»: anche quello, promette, per altri quattro anni.

TUTTO IL RESTO INVECE cambierà prestissimo, perché il M5S secondo il suo leader è destinato a «diventare adulto». Dunque, come era trapelato da giorni, i vertici hanno deciso di mettere mano al tetto dei due mandati elettivi. Il limite sparisce a cominciare dagli amministratori locali, perché dopo anni di sparate anti-casta i grillini hanno scoperto che, sono le parole di Di Maio, «non si può pensare che fare il consigliere comunale sia privilegio».

È la rottura di un tabù che dovrebbe sbloccare le ambizioni degli aspiranti eletti che non volevano «bruciarsi» un mandato in un consiglio comunale e che aspettavano la volta buona per candidarsi. La riforma, inoltre, consentirebbe alle sindache big Virginia Raggi e Chiara Appendino di presentarsi per un secondo mandato. Ma bisogna dire che non siamo ancora di fronte al liberi tutti che si attende (e che prima o poi arriverà, non c’è via d’uscita) per evitare che questa legislatura sia l’ultima per molti 5S di primo piano, a cominciare proprio da Di Maio.

POI C’È IL PASSAGGIO che apre alle alleanze: «Inizierei con delle sperimentazioni – dice Di Maio – Le liste civiche possono significare tutto e niente, a volte ci sono liste create in provetta e gruppi civici che rappresentano una tradizione di collaborazione sul territorio anche interessante». Verranno anche nominati dei dirigenti su base regionale: «Pensavamo che stando al governo potessimo recepire tutto dai territori ma è impossibile: serve un’organizzazione».

E allora «se in una regione ci sono stakeholders che vogliono portare avanti un progetto, è giusto iniziare a parlare». Di Maio e suoi prendono atto della fine di un’illusone. L’idea che la piattaforma digitale avrebbe sostituito la forma-partito e consentito di interagire coi propri elettori non ha funzionato. Non è un caso che Rousseau sia in crisi di iscritti e carente di contenuti, accantonata nei mesi del governo e rispolverata solo in occasione del voto sul processo a Salvini per il caso Diciotti.

I COMPROMESSI INTERNI e le questioni identitarie prevedono che alla creatura di Davide Casaleggio sia pagato il giusto tributo. Di Maio assicura che tutto avverrà gradualmente e nel rispetto delle liturgie digitali, visto che la riforma del M5S «non si realizza domani mattina, ha bisogno di un percorso, di una discussione».

Promette una serie di votazioni su Rousseau: serviranno anche a «decidere sulla destinazione delle risorse provenienti dalla restituzione degli stipendi dei parlamentari». Non esattamente una questione che tocca la linea politica. Da Rousseau però nei prossimi giorni si potranno consultare i profili dei 2900 aspiranti candidati alle europee.

Ne verranno scelti 76, ma Di Maio si riserva la possibilità di piazzare qualche fuori quota per rafforzare il profilo elettorale del M5S. Dice chiaramente che col voto di maggio per l’europarlamento si potrà misurare lo stato di salute del M5S. Con chi gli chiede dove fissa l’asticella, però, Di Maio non si azzarda a ipotizzare percentuali minime. Fissa un traguardo molto prudente e che non pare impossibile, stando agli ultimi sondaggi: impedire a socialisti e popolari di avere la maggioranza.