Non si placano le violenze nel più giovane stato del mondo, il Sud Sudan, dove lo scontro di potere tra il presidente Salva Kiir e il suo ex vice Riek Machar è degenerato da domenica scorsa in pesanti scontri armati che hanno provocato, secondo stime delle Nazioni unite, centinaia di morti. Oltre 500, conferma il ministro dell’Informazione Micheal Makuei Lueth, che fino al giorno prima ipotizzava una trentina di vittime al massimo. In maggioranza si tratta di soldati. Incalcolabile il numero dei feriti. Salva Kiir accusa i militari fedeli a Machar di un tentativo di colpo di stato. Machar, che martedì era dato in fuga con una carovana di uomini armati e bestiame, ieri ha smentito il suo coinvolgimento e l’esistenza di un piano per rovesciare l’attuale regime, accusando Kiir di «incitare alla violenza etnica».

Fonti diplomatiche che preferiscono restare anonime, da Juba fanno notare che se davvero Machar avesse voluto prendere il potere avrebbe approfittato del viaggio che nei giorni precedenti aveva portato Kiir all’estero.

La battaglia invece è esplosa domenica sera a un meeting del Sudan’s People Liberation Movement (Splm), braccio politico dell’esercito che sotto la guida di John Garang ha combattuto per l’indipendenza dal nord. Secondo Machar la sparatoria sarebbe riconducibile a dissidi interni alla guardia presidenziale. Salva Kiir, sostengono i suoi oppositori, avrebbe poi preso la palla al balzo per liberarsi energicamente dei suoi avversari. Martedì sono finiti in manette l’ex ministro delle Finanze Kosti Manibe, quello della Giustizia John Luk Jok e quello degli Interni Gier Chuang Aluong, oltre a Pagan Amum, ex segretario dell’Splm e capo dei negoziatori che hanno condotto la trattativa “petrolifera” post-secessione con Khartoum.

«Sono dovuto fuggire da Juba perché mi stanno dando la caccia, ma non ho intenzione di lasciare il paese» ha detto Riek Machar alla Bbc, ribadendo la richiesta di dimissioni del presidente in carica ed esprimendo timori che le violenze possano dilagare ulteriormente. La crisi secondo lui sarebbe esplosa dopo il tentativo da parte sua e dei suoi alleati (tra i quali c’è anche la vedova di John Garang) di riformare l’Splm. Trattandosi di un partito praticamente unico, chi ne prende la guida diventa quasi automaticamente capo dello stato. Con le presidenziali fissate per il 2015, Machal ha invocato regole più democratiche e voto segreto per eleggere i vertici del partito, ma Salva Kiir ha detto no. Così la sfida interna all’Splm si è praticamente trasformata in una guerra civile. A soli due anni dal referendum che ha chiuso con la proclamazione d’indipendenza (salutata con favore dalla comunità internazionale) un conflitto durato oltre dieci anni.

Gli scontri più pesanti ieri sono avvenuti a Bor, capitale dello stato di Jonglei. Le fazioni armate si affrontano ormai su base etnica, da una parte i Dinka (l’etnia del presidente) dall’altra i Nuer (il gruppo a cui appartiene Machar), e questo accade malgrado all’interno del partito le posizioni non fossero così rigidamente definite.

In compenso, dopo la terza notte di coprifuoco la situazione sembra più tranquilla a Juba. L’aeroporto della capitale ha riaperto ieri mattina ed è stato subito preso d’assalto dagli stranieri che cercano di lasciare il paese.

Usa, Gran bretagna, Norvegia e paesi scandinavi ieri hanno evacuato i loro cittadini e il personale delle ambasciate. Per oggi è previsto l’arrivo di un C-130 dell’Aeronautica italiana che dovrebbe riportare a casa i nostri connazionali, mentre un volo dell’Unione europea porterà i diplomatici occidentali al sicuro a Nairobi.

Si calcola che nei compound delle Nazioni unite abbiano trovato rifugio circa 15 mila civili.