I detenuti non possono essere costretti a denudarsi completamente ed essere perquisiti prima di ogni incontro con il proprio avvocato, a maggior ragione se si tratta di condannati per mafia in regime di carcere duro che vivono sottoposti a severe e ulteriori limitazioni della libertà personale rispetto ai detenuti comuni. Lo sottolinea la Cassazione accogliendo il ricorso di Giuseppe G., 32 anni, detenuto al 41 bis nel supercarcere di Cuneo dopo la condanna per associazione mafiosa e tentato omicidio. «La misura del denudamento, in quanto particolarmente invasiva e potenzialmente lesiva dei diritti fondamentali dell’individuo – scrive la Cassazione – non può essere prevista, in astratto e in situazioni ordinarie nelle quali il controllo può avvenire senza ricorrere alla suddetta misura, ma deve essere disposta con provvedimento motivato, solo nel caso in cui sussistano specifiche e prevalenti esigenze di sicurezza interna o in ragione di una pericolosità del detenuto risultante da fatti concreti». I supremi giudici inoltre rimproverano al magistrato di sorveglianza di Cuneo, che aveva respinto il reclamo di Giuseppe G. contro questo tipo di costrizione, di non aver spiegato «quali specifiche e concrete esigenze abbiano determinato la necessità di effettuare una perquisizione con le suddette modalità» Le ragioni per cui si ricorre alla perquisizione con denudamento – insiste la Cassazione – devono essere «adeguatamente motivate» con richiamo a «specifiche e prevalenti esigenze di sicurezza interna». Giuseppe G., infine, ha fatto presente che «anche il suo avvocato, prima di accedere alla saletta colloqui, veniva sottoposto a controllo e il colloquio era monitorato da telecamere».