Rimane alta la tensione a Ferguson dopo la violenza esplosa domenica e lunedì attorno all’anniversario della morte di Michael Brown. Le proteste nella cittadina del Missouri sono continuate per un terzo giorno con numerosi arresti di persone che hanno continuato ad occupare tratti di Florissant avenue.

Alla fine nella notte di ieri la polizia aveva nuovamente usato gli spray lacrimogeni e arrestato 23 manifestanti. Nella contea persiste lo stato d’emergenza imposto lunedì. È così tornato a vivere giorni pesanti il sobborgo di St Louis dove lo scorso agosto Brown, un diciottenne nero disarmato era stato falciato dai colpi dell’agente Darren Wilson.

Dai disordini a volte violenti e dalle proteste seguiti nelle settimane successive è nato il nuovo movimento politico afroamericano generalmente che ha coalizzato nell’hashtag black lives matter le istanze di una comunità che ripropone l’analisi politica della black experience come problema irrisolto di una nazione che ha rimosso l’eredità razzista della schiavitù. Quella esperienza è attualmente definita in gran parte dallo stillicidio di morti ammazzati dalla polizia. Secondo le statistiche compilate dal progetto the counted solo dall’inizio di questo anno sono 708 le persone uccise dalla polizia – oltre la metà afroamericani; 60 di queste erano disarmate, e di queste ultime 40% erano neri.

Nell’anno trascorso dalla morte di Michael Brown ci sono state le manifestazioni di New York, Oakland, Los Angeles, Baltimora e molte altre città solitamente in risposta a nuove uccisioni spesso catturate dai videofonini. C’è stato l’anniversario di Selma col discorso di Obama che ha collegato gli eventi di oggi al movimento di Martin Luther King, c’è stata una nuova marcia su Washington organizzata dalle famiglie delle vittime. C’è stata una inchiesta federale che ha rilevato una storia di vessazioni razziste da parte della polizia di Ferguson. In South Carolina è stata ammainata la bandiera confederata simbolo degli stati schiavisti

Allo stesso tempo non ci sono state riforme chieste da un numero sempre maggiore di voci politiche e civili, l’agente Wilson è stato prosciolto come la quasi totalità degli agenti responabili delle uccisioni. Nell’America del presidente afroamericano, la questione nera rischia paradossalmente di rimanere il probema più intrattabile. Come Eisenhower, Johnson, Kennedy e altri suoi predecessori scontratisi con gli sceriffi del sud, Obama sta scoprendo quanto sia intrattabile un fenomeno «culturalmente» sistemico come la discriminazione.

Il problema infatti nasce dalla cultura violenta di polizia, ma rappresenta una più profonda sedimentazione di ingiustizie coniugate in povertà ed emarginazione, disoccupazione e imprigionamento in un complesso penale usato come strumento di controllo sociale. È, in breve, la lezione di come sia interiorizzato e ostinato un atto di violenza «originale» come la schiavitù (ma in Europa si potrebbe dire lo stesso dell’imperialismo coloniale e del suo retaggio di migrazione). Di come le ingiustizie storiche abbiano un prezzo inevitabile.

Su questo sfondo continuano i funerali di ragazzi. Solo negli ultimi tre giorni i colpi della polizia hanno ucciso Christian Taylor, adolescente del Texas e Andre Green di 15 anni morto in Indiana.

Lunedì sul selciato di Ferguson, ad un anno dalla morte di Brown, è rimasto in condizioni critiche un altro diciottenne, Tyrone Harris, coinvolto in una sparatoria che pare non direttamente connessa con le proteste. Il capo della polizia ha denunciato «elementi criminali» che approfittano delle legittime proteste per compiere reati comuni.

Ma nel contesto di Ferguson, in quello americano, la distinzione è a questo punto in gran parte accademica. Era il senso del documento che un corteo di manifestanti ha tentato di consegnare al procuratore federale si St Louis. Bloccati dalla polizia, molti sono stati arrestati, fra di loro Cornel West, noto professore di Princeton e leader del movimento per i diritti afroamericani. La passione di Ferguson continua.