Film che testimoniano la stagione appena precedente e appena successivo al grande cambiamento epocale dell’Unione sovietica sono proposti dal Festival dei Popoli nella sezione «Diamonds are forever: utopia rossa», selezione dall’archivio del festival dedicato ai trent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica.

Sono otto titoli che ci riportano al momento cruciale del cinema sovietico e della storia, tra l’86 di Chernobyl, l’89 del muro di Berlino, il 1991 delle dichiarazioni di indipendenza degli stati sovietici e poi gli incerti primi anni novanta.

È facile essere giovani? si chiedeva nell’86 Juris Podnieks realizzando Is It Easy to Be Young? documentario campione di incassi che diede risonanza internazionale a un regista che già si era fatto notare con l’esordio Cradle premiato al Dok Leipzig nell’81. La Glasnost di Gorbacev diventato segretario del Partito Comunista dell’Urss nell’85 aveva cominciato a cambiare i connotati della cultura sovietica, compreso il cinema documentario. In particolare il film era girato a Riga, in Lettonia dove la tradizione documentaristica era ancora più forte della fiction, fin dai tempi della «Scuola del documentario poetico» di Riga degli anni ’60 e ’70, a dispetto dei registi inviati da Mosca per ristabilire i parametri ideologici.

Is It Easy to Be Young? fu una tempestiva risposta alla glasnost, fece scalpore perché toccava una serie di tabù come l’uso di droghe (ad esempio gli insetticidi) e la guerra in Afghanistan, punk girovaghi, mai visti prima sullo schermo: si facevano parlare giovani su problemi personali, speranze e sogni, progetti per il futuro. Il film inizia con la folla di ragazzi scatenati a un concerto rock, un evento liberatorio solo poco tempo prima manifestazione vietata.

In questa occasione vengono arrestati dei ragazzini per aver vandalizzato un vagone del treno al ritorno in città, condannati a tre anni di lavori forzati. Si passa a incontrare soldatini che hanno deciso di tralasciare una vita fatta solo di divertimento e puntare alla normalità di un lavoro («famiglia, soldi, macchina, appartamento, casa in campagna»), quindi alle attività del Comsomol dove brigate in azione hanno l’obiettivo definito da loro «romantico» di ripulirela città vecchia.

Un biondino che lavora alla morgue vuole dimostrare che può farcela, che può affrontare anche un lavoro come quello, l’architetto che costruiva palazzoni dormitorio è diventato postino dopo aver scoperto la spiritualità delle pratiche buddiste. In un crescendo di tensione il soldato che si prepara a partire per l’Afghanistan («è un’occasione per provare me stesso, certo che ho paura, tutti vogliono vivere») è il primo di una serie di testimonianze che portano alla conclusione pragmatica che «la guerra è la guerra» e nei racconti dei reduci emerge che nessuno può dimenticare e chi non c’è stato non può capire.

Madri in lacrime e soldatini impavidi, sono costanti del cinema sovietico, ma nel raccontare questi giovani spunta improvvisamente anche una componente sociale inedita, mentre gli adulti appaiono come impenetrabili e incapaci di comprendere, uniti in un atteggiamento autoritario. La forza del film che quando uscì fu paragonato a «un atto terroristico nel centro di Mosca», con lunghe file e giorni di anticipo per acquistare i biglietti, è ancora oggi notevole, perché si può ricostruire il futuro a cui sarebbero andati incontro tutti quei ragazzi: il mondo del capitalismo è alle porte altro che i pochi copechi che ora hanno in tasca. Qualcuno di loro diventerà uno spietato oligarca, e la Cecenia spazzerà via parecchi di loro. L’ombra di Alexandra (Sokurov 2007) già si staglia all’orizzonte.

Ci vengono in mente anche quei film che negli anni successivi avrebbero indagato le presenze del sottosuolo, orfani che sopravvivono nelle fogne, o tra le montagne di rifiuti.
Ma il regista non farà in tempo a vedere il mondo nuovo, dopo essere andato a lavorare in Inghilterra, annegherà nel 1992 tornato in Lettonia, durante un’immersione subacquea in un lago ad Alsunga, in Curlandia.

Un’altra scomparsa drammatica fu quella della regista Larisa Shepitko, una delle grandi «madri» del cinema delle donne, tra le registe più riconosciute, premiata con l’Orso d’oro a Berlino per l’Ascesa (’77), moglie di Elem Klimov (Va’ e Vedi) eletto nell’86 segretario dell’Unione dei cineasti, un’elezione accolta come grande segno di rinnovamento. Di origine ucraina, allieva di Dovzenko, riuscì a realizzare solo cinque film, costantemente sottoposta a censura. Andrej Tarkovskij che era suo amico, scrisse nel suo diario il 7 luglio del ’79: «Ieri c’è stato il funerale di Larisa Shepitko e di cinque membri del suo gruppo. Un incidente automobilistico… sembra che l’autista si sia addormentato alla guida. Era mattino presto…». Klimov portò a termine il film che stava girando, Farewell, e dedicò alla moglie lo struggente ritratto Larisa (1980) in programma nella sezione «Diamonds».

A rivederlo oggi «Il nostro secolo» di Artavazd Pelesjan del 1982 si può rileggere come un magnifico sberleffo (nel senso divino del termine ), una grande risposta ironica di spirito armeno dall’alto alle difficoltà di una vita sotto censura e sotto controllo. La conquista dello spazio, dai primi tentativi di volo anche impensabili e audaci che hanno caratterizzato il XX secolo fino a Gagarin, Tereskova, Laika e gli americani, dove la terra ormai è vista come una ridicola palla che gira con esseri che continuano a girare nello spazio, assume un significato di desiderio di evasione e insieme di genialità cinematografica. Il cardiogramma del genere umano. Una quantità di film nel paesi dell’est mettevano in scena negli stessi anni tentativi di volo casalinghi facilmente decodificabili, ma in Our Century la costruzione è talmente geniale da assumere un valore epocale, testimonianza di tutte le prove di sopravvivenza, del genere umano.

Sokurov è stato un altro testimone del momento di passaggio, appena caduto il divieto di mostrare i suoi film. «Nonostante i problemi concreti che ho sempre avuto non mi sono mai permesso il lusso di fare quel che non volevo fare. Mi trovavo in situazioni di totale arbitrio e di assoluta mancanza di prospettive… nemmeno nei miei sogni più belli potevo supporre che i miei film sarebbero potuti uscire». Sovetskaja elegija (Elegia sovietica, ’89) che si vedrà nella rassegna trasmette lo spirito della dissoluzione, della fine di un’epoca, in cui resteranno solo uffici vuoti.

Il 21 dicembre del 1991nasce la comunità degli stati indipendenti a cui aderiscono 11 repubbliche sovietiche, nel 1992 l’economia apre alla concorrenza. Esordisce Viktor Kossakovsky, della nuova generazione dei cineasti russi (classe 1961) con Belovy (1992) ritratto della vita di campagna e dell’«animo russo» tra fiumi di vodka e considerazioni sulla vita. Sergei Dvortsevoy, kazako, ingegnere aeronautico passato al cinema, realizza nel ’95 Paradise, documentario su una famiglia di pastori con tutte le difficoltà di sopravvivenza in una zona desertica
Del ’99 è Alone di Dmitry Kabakov, che segue una vecchina mentre raccoglie legna nei boschi: la Russia ha appena partecipato al G8 e il Fondo monetario le ha accordato 22 milioni di dollari per fronteggiare la crisi. Quello che racconta infine Bill Morrison in The Village Detective: A Song Cycle (2021) è un magnifico gesto poetico scientifico, una defribbillazione riuscita, il restauro di rulli di film russi degli anni ’60 recuperati dalle profondità marine da un pescatore islandese, dove un famoso attore russo, Michail Zharov, specializzato in personaggi irriverenti e disobbedienti, rivive e sembra volerci comunicare qualcosa.