Non molti anni fa, il regista Ugo Gregoretti in un talk show – dove si proiettano filmati muti su studenti e operai in sciopero, a cui viene aggiunto, per la fruizione televisiva, una soundtrack posticcia con la voce angelicata di Joan Baez – nel dibattito a seguire, si arrabbia tantissimo, sostenendo che il «commento musicale» appropriato è da cercare tra i «rumori» (voci, slogan, cori, urla, tamburi, fischi, persino insulti) prodotti dalle folle in marcia con striscioni e bandiere rosse. Non ha tutti i torti, perché la rabbia sessantottesca – quella vera che fa prendere coscienza o posizione a migliaia di giovani e meno giovani – si esprime in una cultura che rompe i ponti con il passato e le tradizioni: e la musica in tal senso assolve un impegno similare con identico furore.
Non a caso proprio di Gregoretti esce, nel 1969, tra i circuiti alternativi il documentario Apollon: una fabbrica occupata, noto anche con il titolo di Cinegiornale Libero Roma 1969, avente quale colonna sonora il rabbioso free jazz di Mario Schiano (sax tenore), appositamente concepito e realizzato per l’occasione, in cui gruppi di cineasti e intellettuali esigono di dare voce alla lotta ai lavoratori della tipografia romana Apollon, i quali, a loro volta, conducono una dura battaglia sindacale con l’occupazione di alcuni mesi, dopo il licenziamento di tutto il personale e la vendita dei terreni su cui sorge lo stabilimento. Schiano, assieme al pianista Giorgio Gaslini, in quel 1969, è l’unico a suonare free in Italia: i titoli emblematici dei rispettivi dischi di quell’anno, Ogni giorno in piazza e Africa!, vanno relazionati a quelli, ad esempio, di Ornette Coleman e Cecil Taylor (freemen già nel 1958-59) e in seguito di altri notevoli solisti, bandleader, performer, compositori istantanei: John Coltrane, Eric Dolphy, Albert Ayler prematuramente scomparsi, e ancora Sun Ra, Archie Shepp, Don Cherry, Clifford Thornton, Jackie McLean, l’Art Ensemble of Chicago, tutti impegnati nel 1969 a incidere i loro album forse migliori.
D’altro canto il free viene ormai letto o interpretato quale pendant artistico della lotta contro il potere da parte dei giovani di tutto il mondo, soprattutto nella prima fase sessantottesca, ancora informale, spontaneista, persino anarcoide. Un potere che, soprattutto negli Stati Uniti, sembra incitare all’odio razziale. Per i neri il 1969 infatti inizia e termina in tragedia: alla Ucla di Los Angeles il 17 gennaio le Black Panther Bunchy Carter e John Huggins vengono freddate da due membri di un’associazione nazionalista; a Chicago, il 4 dicembre Fred Hampton e Mark Clark, altri due esponenti delle Pantere Nere sono massacrati mentre dormono nel loro letto, per via di un’incursione notturna compiuta da ben quattordici poliziotti. Dietro il martirio dei quattro, come in molti altri casi finiti in arresti, maltrattamenti, depistaggi, c’è lo zampino di Alan Edgar Hoover dell’Fbi, per reprimere e dividere un partito che, frustrato e vilipeso, nel giro di pochi mesi si dissolve con i militanti in fuga, scissi fra moderazione, attività clandestina o lotta armata.
IN ESILIO
Anche il free jazz del 1969 finisce in esilio, scegliendo l’Africa o più ancora Parigi quali nuovi centri propulsivi. E tra l’altro, non è forse un caso che proprio attorno al Sessantanove, il jazz europeo e quello afroamericano, all’insegna del free, si congiungano idealmente, ormai senza più questioni di reciproche diffidenze o persino di sudditanza del primo verso il secondo (il complesso di inferiorità al contrario che patisce l’intera storia del jazz sul vecchio continente nei confronti della musica nera e bianca oltreoceano), ma guardando dunque a un duplice obiettivo comune, da un lato estetico (la rivoluzione musicale), dall’altro sociopolitico (il portato sessantottesco, anche dopo la contestazione generale). Tuttavia sono il free politico da un lato e il nascente jazz rock dall’altro a ribadire la maggior novità del jazz 1969, destinati rispettivamente a sintetizzare un percorso ideologico e ad aprire inedite soluzioni espressive: Ornette Coleman e Miles Davis sono forse gli emblemi dell’uno e dell’altro linguaggio sonoro che, nel corso degli anni Settanta, si riuniranno o si scambieranno i ruoli allorché Ornette, con lo stile armolodico, elettrifica e raddoppia la propria band e quando Miles approda a un funk informale dal mood sperimentalista.
Per i neri non è però l’unica soluzione artistica: ci sono il soul e il rhythm’n’blues dei già celeberrimi Ray Charles, Nina Simone, James Brown, impegnati attivamente nella lotta per i diritti civili, così come una nascente jazzpoetry catapultata dai ghetti ai dischi grazie al trio The Last Poets grida il proprio scontento con voci, ritmi, cadenze, messaggi che anticipano di oltre un decennio la cultura rap e hip hop. Pure la black music legata a forme più tradizionali come il gospel o il blues ha, nel 1969, un cantautore di protesta che urla ripetutamente la parola «libertà» sul palco di Woodstock: Richie Havens è anche stilisticamente prossimo a bianchi come Joan Baez, Pete Seeger, Phil Ochs (o il primo Bob Dylan), che restano più o meno direttamente, sul piano dell’arte, i principali oppositori alla guerra in Vietnam, alla repressione studentesca, alle violenze contro le minoranze etniche.
CONTAMINAZIONI
Anche fuori dagli Stati Uniti molte sonorità black partecipano al cambiamento: nel 1969 in Giamaica il cantautore ska/reggae Jimmy Cliff pubblica l’album Wonderful World, Beautiful People che contiene Vietnam, per Bob Dylan in assoluto la miglior canzone di protesta; in Nigeria il sassofonista e compositore Fela Kuti dà alle stampe The ‘69 Los Angeles Sessions, frutto di un lungo soggiorno californiano, in cui inizia a divulgare i germi del futuro afrobeat; parimenti a Londra si forma il settetto Osibisa, promotore di un incrocio fra rock, ethno, world music, con i membri provenienti da Ghana, Nigeria, Antigua, Grenada, Trinidad & Tobago. Anche in Brasile – dove i fondatori del tropicalismo Cateano Veloso e Gilberto Gil, perseguitati dal nuovo regime fascistoide, scelgono la via dell’esilio londinese, mentre Chico Buarque fugge a Roma – c’è comunque fermento, in quanto Jorge Ben, già noto bossanovista e ora in grado di aggirare la censura con testi ironici e misteriosi, con il sesto omonimo ellepì, sterza verso il funky, miscelando stili afro, popolari, jazzati e etnicheggianti.
Nonostante le grandi manifestazioni pacifiste di Washington e San Francisco (a cui partecipano numerosi musicisti, anche jazz) e nonostante la piena attività di etichette newyorkesi come Esp, Impulse, Delmark e la neonata Flying Duchtman, il baricentro del free americano è ormai spostato in Europa, a Parigi in particolare: nella Ville Lumière si contano infatti almeno sei avvenimenti fondamentali: l’Art Ensemble of Chicago pubblica il disco d’esordio A Jackson In Your House (a cui ne seguono ben quattro nel solo 1969), accompagna poi addirittura la chanteuse Brigitte Fontaine nel 33 giri Comme à la radio. Nella capitale francese a lungo soggiornano via via: Don Cherry che incide lo straordinario Mu vincitore all’Académie du Jazz; Alan Silva, dove fonda la Celestial Communication Orchestra; Andrew Cyrille che esordisce discograficamente con What About?. Le registrazioni dell’AEOC e di Cherry, Silva, Cyrille, come quelle radicalmente politiche di Archie Shepp (ben quattro nel solo 1969) appartengono tutte all’Actuel, sussidiaria della Byg Records (1967). La label viene costituita e diretta nel 1969 dal batterista francese Claude Decloo, il quale, già fondatore della rivista Actuel, oltre a registrare due album a suo nome, interpella decine di solisti free reduci dal Festival Panafricano di Algeri; in un paio d’anni tutti o quasi registrano per lui un album decisamente sperimentale: Anthony Braxton, Steve Lacy, Pharoah Sanders, Sonny Sharrock, John Surman, Dave Burrell, Chris McGregor, Robin Kenyatta per citare i più noti.
WOODSTOCK OLTRALPE
Decloo è altresì vittima di uno dei più madornali errori di valutazione culturale da parte del Comune di Parigi: il batterista, mediante tutti gli artisti di Actuel e Byg, vorrebbe organizzare, due mesi dopo la kermesse americana, una Woodstock «francese» alternativa che punti esclusivamente sulla musica sperimentale sia jazz sia rock. Ancora preoccupati degli incidenti del Maggio ’68, sindaco e giunta negano l’autorizzazione, che viene invece concessa dalla cittadina di Amougies in Belgio, dove dal 24 al 28 ottobre suonano ben 54 band con i più bei nomi del free, del prog, dell’avant garde: Pink Floyd, Gong, Nice, Caravan, Yes, Colosseum, Soft Machine, Captain Beefheart, per nominare solo le star, con Frank Zappa nelle vesti di presentatore, generosissimo nel duettare in jam session con Aynsley Dunbar Retaliation, Blossom Toes, Sam Apple Pie e con Roger Waters. Dei quattrocentomila giovani previsti ne arrivano solo ventimila a causa delle pessime condizioni atmosferiche, mentre la capitale francese ripiega su una sesta edizione del Paris Jazz Festival «tradizionale» con Lionel Hampton, Sarah Vaughan, Duke Ellington, lasciando il compito di rappresentare le novità ai soli Davis e Cecil Taylor. Quest’ultimo inaugura le Nuits de la Fondation Maeght a Saint Paul de Vence: nel prestigioso museo concepito da Joan Mirò dà il la ai concerti free, tenuti negli anni successivi da Ayler e Sun Ra (divenuti celebri grazie ai relativi album live).
SOLLECITAZIONI
E, ancora, sempre la Francia, nel 1969, grazie a un pubblico entusiasta, è pronta ad accogliere ulteriori sollecitazioni, a cominciare dai jazzmen locali per così dire proiettati sul mondo: il multistrumentista Michel Portal vive il doppio esordio discografico nella classica con Sonate per clarinetto e pianoforte op. 120 di Johannes Brahms e nel free con Our Meanings and Our Feelings coerentemente a una successiva strepitosa carriera che lo vedrà impegnato su entrambi i fronti; Jean-François Jenny-Clark al contrabbasso e Aldo Romano alla batteria accompagnano in tournée l’astro nascente Keith Jarrett, pianista eclettico già alla corte di Miles Davis e di Charles Llyod; Barney Wilen intraprende un viaggio in Africa suonando il sax alto con musicisti locali e registrando il capolavoro Moshi (pubblicato solo nel 1972); gli Swingle Singers, in qualità di coristi, assieme alla jazzsinger svedese Alice Babs si uniscono all’Orchestra di Duke Ellington per il concerto sacro novembrino nella chiesa di Saint-Sulpice. E oltre i musicisti Gérard Terronès fonda la Futura Records, che editerà altri importantissimi dischi di free jazz e di hard bop afroamericano; e Alain Corneau esordisce nella regia con il misconosciuto Le jazz est-il dans Harlem?, mediometraggio che gli consentirà di intraprendere una strepitosa carriera nella fiction internazionale, culminata fra l’altro con una biografia musicale, Tutte le mattine del mondo, sui legami tra Lully e Marais (compositori all’epoca del Re Sole).
Non c’è solo la Francia, in Germania, a Monaco, un giovane Manfred Eicher fonda le Editions of Contemporary Music, meglio nota come Ecm, imprimendo una svolta cameristica ed europeizzante all’intero jazz (free compreso): due sole uscite nel 1969 con Free at Last di Mal Waldron e Just Music di Alfred Harth. In parallelo, a Berlino, la scena radicale – attorno a solisti come Peter Brötzmann, Peter Kowald, Manfred Schoof, Alexander Von Schlippenbach – grazie alla cooperativa New Artists Guild, esprime la Free Music Productions (Fmp) che proporrà un jazz oltranzista prossimo alle ricerche della musica colta fra alea e post-dodecafonia. In Austria, a Graz, due studiosi e appassionati, Peter Körner e Dietrich Glawischnig, fondano la Società Internazionale per la Ricerca sul Jazz, quasi un pendant al Dipartimento di Musica Afroamericana (ora chiamato Jackie McLean Institute of Jazz) che il sassofonista, nel 1969, crea presso la grande rinomata Università di Hartford in Connecticut. Körner pubblica subito la rivista annuale bilingue Jazzforschung/Jazz Research che, da allora a oggi, nonostante le difficoltà spesso frapposte dai governi nazionalisti, riesce a diffondere al mondo intero (ora anche sul web) un’idea di jazz che sembra uscire anche dalle parole del Giorgio Gaslini citato all’inizio, che sostiene: «Ci dichiariamo per l’assunzione di tutte le culture musicali in unico atto libero di creazione espressiva. Ci proponiamo un’arte popolare che raccolga le membra sparse di tutto l’uomo, che preannunci una civiltà dell’uomo, unica, totale e al vertice di una evoluzione spirituale, di un processo storico. In questa prospettiva il musicista è tenuto a interessarsi di altri e non c’è più posto per presunzioni di valore stilistico».

FUORI I DISCHI

In A Silent Way (Miles Davis), Crisis (Ornette Coleman), Blues for the Viet Cong (Stanley Cowell), The 85 Years of Eubie Blake, Mountain in the Clouds (Miroslav Vitous), Swiss Movement (Les McCann & Eddie Harris), Emergency (Lifetime), Rashaan Rashaan (Roland Kirk), Esoteric Circle (Jan Garbarek), Electronic Sonata for Souls Loved By Nature (George Russell) sono tutti album bellissimi usciti nel 1969. Tuttavia nei seguenti dieci lp – in ordine alfabetico – meglio si rispecchia lo stretto connubio fra musica, politica, ricerca, società di cui il free resta il principale combattente.
Art Ensemble Of Chicago, Tutankhamon (Actuel)
Nella new thing e nell’hard bop sono costanti i riferimenti alla Madre Africa con simboli, retaggi storici, persino aspetti visivi (Jarman, Mitchell, Bowie, Favors suonano mascherati o in costume): nel titolo dell’album è racchiuso un passato glorioso, indirettamente evocato da un happening sonoro, in cui scorre improvviso il cammino jazzistico, perpetuato in quello stesso 1969 anche da The Spiritual, People in Sorrow, Message to Our Folks.
Albert Ayler, The Last Album (Impulse!)
Il polistrumentista tragicamente scomparso l’anno dopo, è nel pieno della creatività, fino all’ultimo, alla ricerca di sempre nuove esperienze musicali, anche quando il sound riflette gravi depressioni, come nei fatali due album Music Is the Healing Force of the Universe e questo postumo (dalle medesime uniche sessioni) dove il free si avvicina persino al rock.
Dollar Brand, African Piano (Japo Records)
Chi meglio di un africano può rappresentare simbolicamente l’abbraccio musicale dei nuovi improvvisatori neri all’antico continente? Sudafricano, in esilio dal 1960 in Svizzera, prima di scegliere gli Stati Uniti e l’Islam (con il nome di Abdullah Ibrahim) registra il suo terzo album in solitudine, applicando alla tastiera l’insistente ancestrale percussionismo e le dolci semplici melodie.
Gunther Hampel, The 8th of July (Birth Records)
Rifiutato da molte etichette, il disco viene pubblicato dal vibrafonista stesso che apposta fonda una propria casa: ed è tra i primi album in cui si ascoltano improvvisatori radicali europei accanto a colleghi afroamericani: i nomi (Jeanne Lee, Anthony Braxton, Wilem Breuker, Steve McCall) sono di per sé una garanzia del miglior lp di free interrazziale e intercontinentale.
John McLaughlin, Extrapolation (Marmalade/Polydor)
Prima di avventurarsi nel Bitches Brew davisiano il chitarrista inglese esordisce discograficamente chiamando i migliori freemen locali: John Surman (sassofoni), Tony Oxley (percussioni) e Dave Holland (sostituito da Brian Odger, basso). Ne fuoriesce un album intenso a metà strada tra free e rock, facendo presagire la fruttuosa stagione del nuovo british jazz.
Sunny Murray, Homage to Africa (Actuel)
Benché tutti riconoscano a Mu di Don Cherry e a Music Liberation Orchestra di Charlie Haden il valore massimo del jazz ’69 a livello etno-politico, occorre affiancare, come trittico simbolico, anche questo album del batterista che inventa due suite furiose in cui spicca l’impeto di Clifford Thornton e di Graham Moncur III nell’ennesimo peana africanista.
Pharoah Sanders, Karma (Impulse!)
Diretto erede musicale del misticismo orientale e dell’avanguardia estrema di John Coltrane, con il quale collabora a lungo, il «faraone» ne approfondisce gli aspetti trascendenti grazie a un orientamento etnico-spirituale che, qui, a livello sonoro, abbraccia il modale, lasciando al free il parametro ideologico, su cui porsi o confrontarsi.
Archie Shepp, Live at the Pan-African Festival (Actuel)
Abbandonata clamorosamente l’etichetta Impulse! (con cui incide i lavori migliori), il tenorista passa ai francesi, da un lato accentuando l’impegno politico, dall’altro rendendo il proprio free rozzo, polemico, sgradevole, ai limiti di un informale ultra dissonante che resta oggi lo specchio di un’epoca, soprattutto in questo set dalla kermesse ad Algeri dove s’incontrano le «due» Afriche (e il saxman i percussionisti tuareg).
Leon Thomas, Spirits Known and Unknown (Flying Dutchman)
Ecco l’esordio di uno dei rari cantanti free (come al femminile Jeanne Lee resta unica nel genere) il quale, già presente in un brano di Karma di Sanders, applica un timbro baritonale a intensi vocalizzi dal sapore bluesy, con una tecnica yodelling e con struttura aperta in grado di rileggere comunque buona parte della storia musicale afroamericana.
Clifford Thornton, Ketchaoua (Actuel)
Didatta e attivista, resta senza dubbio il più intellettuale (e il meno noto) fra tutti i grandi della new thing. Già collaboratore dei principali freemen neri, in questo secondo dei cinque album firmati (muore nel 1989 a 53 anni), il trombettista dimostra una vena compositivo originale e una sicura leadership giostrando fra solisti francesi e afroamericani.