Nel suo passaggio in California la scorsa settimana, Greta Thunberg ha indicato gli incendi che bruciano ancora numerosi nello stato come esempi concreti degli scompensi ambientali indotti dalle politiche globali e dei loro effetti già catastrofici.

Se gli incendi, fenomeno storico che si ripresenta con violenza sempre maggiore, non sono un sintomo del collasso ecologico di cui parla la giovane attivista, certo molto gli assomigliano. Come altro definire lo spettacolo della quinta economia mondiale e vantata locomotiva americana in balia delle fiamme, con centinaia di migliaia di sfollati e costretta a spegnere le centrali elettriche nel disperato tentativo di prevenire le scintille all’origine di gran parte dei fuochi? Queste ultime di solito hanno origine in cortocircuiti sulle linee di trasmissione esposte ai venti che soffiano con forza inedita dovuto alla generale estremizzazione dei fenomeni ambientali (le linee sono su pali esposti e fatiscenti perché molte delle aziende private cui è appaltata la generazione elettrica massimizzano i profitti sull’ammodernamento delle infrastrutture).

Più che di innovazione, stavolta la California sarebbe insomma vetrina sulla stessa fatale convergenza di sviluppo insostenibile, privatizzazione delle risorse e scompensi ambientali, che si sommano in un crepuscolo neoliberista. I disastri californiani sono avvisaglie di una distopia destinata solo ad accentuarsi in assenza di riforme sociali ed economiche strutturali e al cui posto si esaspera semmai la reazione di panico dei populismi e della xenofobia. Ma, pur nella generale ignavia, e sempre più spesso a fronte di un negazionismo militante, i macrosistemi non si arrestano, anzi.

Un rapporto pubblicato la scorsa settimana ha drammaticamente accelerato la probabilità delle catastrofe costiera e la tabella di marcia con cui potrebbero innalzarsi i mari gonfiati dallo scioglimento dei ghiacci polari e boreali. Lo studio, pubblicato da Nature, è stato effettuato da Climate Central, un consorzio di scienziati e giornalisti attivi sul fronte della ricerca e la divulgazione sull’ambiente basato nel New Jersey. Lo studio ha modellato i dati rilevati con una serie di diversi metodi satellitari e laser (Lidar) per ottenere una media di elevazioni topografiche che tenessero conto di fattori come la copertura di vegetazione e foreste per stimare con maggiore precisione l’effettiva elevazione del suolo.

I dati sono stati raffrontati con le stime medie dell’innalzamento dei mari entro il 2050 e usati anche per generare una mappa interattiva e ricercabile che mostra le previsioni per specifiche località perché, secondo il centro, «tradurre le previsioni nell’esposizione concreta delle popolazioni coinvolte è un passo critico sia per pianificare l’attenuazione degli effetti del mutamento climatico che per sottolineare i costi del mancato intervento»).

Le conseguenze geografiche e geopolitiche che emergono dallo studio sono drammatiche. La stima è che fino a 190 milioni di persone vivono oggi su terre al di sotto di quello che sarà nel 2100 il limite massimo delle alte maree (la stima precedente era di 110 milioni). Queste previsioni si riferiscono però a uno scenario in cui vengano implementate misure per contenere le emissioni di carbonio.

Nell’ipotesi peggiore (aumento delle emissioni sulla traiettoria attuale) i profughi climatici – costretti ad abbandonare terre sommerse e divenute inabitabili entro la fine del secolo – potrebbero essere 630 milioni, 150 milioni già entro il 2050.

Un miliardo di persone vivono oggi su un terreno che si trova a meno di 10 metri sul livello attuale del mare e sono dozzine le città che potrebbero essere addirittura cancellate dalla mappa. Nel solo Vietnam meridionale 20 milioni di persone vivono su terreni a rischio inondazione e potrebbe finire sott’acqua la maggior parte della metropoli di Ho Chi Minh. La situazione non è molto diversa in Thailandia, dove potrebbe dover migrare il 10 per cento della popolazione nazionale e anche la maggior parte di Shanghai, Bombay, Alessandria, Dakka e New Orleans potrebbero diventare inabitabili. Altrettanto drammatiche sono le previsioni per Venezia, il circostante territorio lagunare e il delta del Po, con inondazioni che potrebbero rendere inabitabili e perse all’agricoltura un vasto territorio che va da Grado fino a Cesena.

Uno scenario apocalittico che fotografa una distopia ormai alle porte, col contorno di conseguenze sociali e politiche di cui le attuali regressioni sono appena la punta dell’iceberg. Sono molte d’altronde le amministrazioni di località costiere che nei piani di sviluppo prevedono piani di difesa sotto forma di barriere e dighe foranee, ma sempre più spesso contemplano anche una strategia di ritirata strategica della popolazione di fronte all’inesorabile innalzamento del livello del mare.