Il 16 ottobre a Roma è durato nove mesi. È cominciato l’8 settembre, è emerso con l’inganno del 26 settembre, ed è continuato fino alla vigilia della liberazione il 4 di giugno dell’anno dopo. Meno di un mese dopo la prima deportazione degli ebrei romani, il 14 novembre, il Manifesto del Partito repubblicano fascista della Repubblica sociale italiana (i predecessori di quel Movimento sociale italiano da cui trae origine la destra attualmente al governo in Italia) proclamava che «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica».
Il 16 ottobre hanno agito i nazisti tedeschi; nei mesi seguenti, sono stati delatori, spie, agenti repubblichini italiani. Erano italiani quelli che nei giorni di Pesach denunciarono ai nazisti la famiglia di Piero Terracina. Immagino che, come i loro seguaci di oggi, si considerassero patrioti, orgogliosi di aver scovato questi nemici stranieri annidati nel cuore della patria.

RITORNIAMO ALLA MEMORIA e alla presenza di quei giorni con alcuni frammenti delle registrazioni conservate nell’archivio sonoro del Circolo Gianni Bosio presso la Casa della Memoria e della Storia di Roma. Sono state messe insieme per un podcast presentato in occasione della Giornata della memoria, il 27 gennaio scorso e rimasto inedito; saranno riascoltate il 17 ottobre in un evento incluso fra le iniziative del Comune di Roma per l’ottantesimo anniversario. Alcune delle voci sono quelle di testimoni storici, come Settimia Spizzichino e Piero Terracina; altre le abbiamo ascoltate di meno ma non sono meno eloquenti. Insieme fra loro, e insieme a tante altre – e insieme al silenzio di chi non è tornato – si uniscono nel costruire un mosaico della memoria di quella tragedia che non è finita.

Parlo di mosaico (tra l’altro, una parola al cui doppio significato ci ha richiamato tempo fa Stefano Levi Della Torre) perché questi racconti sono al tempo stesso memorie dolorosamente personali («io e la mia famiglia siamo stati presi») e tessere di una memoria e una narrazione condivise. Una tragedia collettiva è fatta di tante tragedie personali, tutte insieme e ognuna diversa, parallele ma distinte. Anche in questi giorni siamo tempestati dai numeri delle vittime. Ma i numeri ingannano, perché lasciano credere che le vittime si possano sommare le une alle altre. E invece non è vero, ciascuna, una per una, è un infinito. E questa è un’altra ragione per cui questi racconti, come in un mosaico, si accostano per formare una figura collettiva ma non si fondono fra loro.

Anche per questo, questi racconti sono diversi: non sono frutto di «interviste» (scambi di domande e risposte, dialoghi fra narratore e narratario) ma esperienze di ascolto. Davanti a Settimia Spizzichino o Piero Terracina, io ho potuto solo ascoltare – non passivamente ma lasciando che quelle parole entrassero in me e mi facessero diverso da come ero prima di averle sentite.

PER QUESTO, mi sembra che infine la figura portante di questi racconti sia proprio il silenzio. Non solo il mio silenzio coinvolto di ascoltatore. Il silenzio delle strade e del quartiere in cui risuonano gli scarponi degli assassini, nel racconto di Settimia Spizzichino. Una pausa di silenzio che a me sembrò interminabile nelle parole di Piero Terracina, fra l’ammonimento del padre («non perdete mai la dignità») e la sua sconsolata risposta («Questo, poi, non fu possibile»), e di nuovo un silenzio mio – non avere il cinismo di chiedergli «in che senso? Che è successo?», ma accogliere quel dolore, e lasciare che risuonasse nel silenzio inviolato dell’indicibile.

Suoni del silenzio, dicevano Simon & Garfunkel. Cose indicibili non dette, dice Toni Morrison. Ecco, di questo si tratta: trovare il modo di dire l’indicibile, far risuonare il silenzio all’interno di ciascuno di noi. Il 16 ottobre del 1944, e del 2023, è anche questo.