Chiusi i battenti della attesissima COP26, a un estremo c’è chi parla di successo (Boris Johnson dice «un colpo mortale al carbone»), all’altro chi di parla di flop (per Fridays’ for future è «l’ennesimo fallimento»). In mezzo tanti giudizi intermedi. Chiediamo una valutazione della COP26 e dello stato del pianeta a Luca Lombroso, meteorologo Ampro, che era a Glasgow come observer per l’Osservatorio Geofisico dell’Università di Modena e Reggio Emilia.

Luca Lombroso, sarebbe forse più costruttivo rinunciare alla dicotomia successo/fallimento quando si parla di COP?

Si, è bene non giudicare la COP sotto questi due opposte visioni. La Conferenza delle Parti è una sorta di «assemblea di condominio del Pianeta Terra», o se preferiamo l’unico tentativo di Parlamento globale, peraltro limitato appunto al clima. La decisione di una COP avviene con metodo di consenso, non a maggioranza. E’ un metodo di decisione diverso, per certi versi anche più equo e democratico di una decisione a maggioranza. E peraltro quale sarebbe la soglia e riferimento, se all’Onu si decidesse a maggioranza? Il numero di Stati in termini assoluti? La popolazione? Il reddito pro capite? Consenso significa non unanimità, non si vota, ma anche che nessuno si oppone. E il consenso porta inevitabilmente al compromesso. Anche a Parigi, anche a Kyoto, si voleva di più, a Parigi si provò a inserire la parola «decarbonizzazione», neanche era pensabile accennare indirettamente a carbone o combustibili fossili. Valutando da questo punto di vista Glasgow ha raggiunto comunque un risultato, anche se per il clima serve molto di più.

Chi ne esce contento e chi no?

Diciamo che la COP può essere vista e giudicata secondo diversi punti di vista e secondo diverse visioni, dipende da come è stata vissuta. Il giudizio può cambiare insomma in base al «cappello» che un partecipante indossa, e alle sue aspettative. La visione di un indigeno, di un ambientalista, di un giovane può essere diversa da quella di uno scienziato, di un lobbista (sì, ci sono ed è normale, in quanto la COP è un processo «multilaterale partecipato»). Non si esce dal carbone, insomma, senza coinvolgere chi col carbone ci guadagna, ci vive o ci lavora). A sua volta cambia il punto di vista per un negoziatore, per un politico, per un tecnico o, andando in alto, per un presidente o per il segretario generale Unfcc o Onu. Dal mio punto di vista, COP 26 è andata molto oltre quel che mi aspettavo fino a poche settimane prima, ma è meno di quanto poteva fare. Allo stesso tempo, è un grande passo avanti diplomatico, ma ampiamente insufficiente rispetto a quel che serve. Il cenno al carbone e combustibili fossili, anche se in termini ridimensionati e non assoluti, era impensabile anni fa.

L’impegno a contenere di 1,5 gradi l’innalzamento della temperatura al 2030 è rimasto, allora cosa ha deluso gli ambientalisti?

Qui secondo me c’è un equivoco di fondo. L’obiettivo 1.5°c esisteva già ed è scritto nell’accordo di Parigi sul clima. Qui è stato ribadito, si dice che è stato almeno in parte salvato. Ma voglio essere chiaro e netto: praticamente è un obiettivo quasi impossibile da raggiungere. Siamo già a +1.1°C, anche fermando ora e subito (impossibile) tutte le emissioni, gli 1.5°c saranno raggiunti e superati. Poi ci sono le scappatoie, il cosiddetto overshooting, un superamento temporaneo di 1.5°C e poi il rientro magari con tecnologie che ancora non esistono o sarebbero difficilmente accettabili.

Quali sono stati i punti di avanzamento reali, da cui ci possiamo aspettare dei cambiamenti concreti?

Credo che un punto importante sia l’adattamento. Se ne parla molto nella Glasgow Climate Pact, è previsto dall’accordo di Parigi sul clima, ma se ne parla poco nella narrazione e nella divulgazione dei cambiamenti climatici. Ma non è una alternativa, non esiste adattamento senza mitigazione, e certi stati come le piccole isole a 2°c non potranno adattarsi ma spariranno. Ricordiamoci insomma che dobbiamo «gestire l’inevitabile, evitare l’ingestibile».

Nel corso della COP sono arrivati i risultati molto preoccupanti di ricerche ed inchieste: ad esempio il Washington Post ha segnalato l’enorme divario che sussiste sui tassi di emissione dichiarati dai paesi e quelli effettivi, oppure lo studio di Climate action tracker (Cat) secondo cui le emissioni saranno due volte più alte nel 2030 di quanto devono essere per rimanere entro 1,5 gradi: sono stati presi in considerazione?

Ecco la vera sfida, tante promesse, anche da accordi separati fra Stati, annunciati alla COP ma esterni al sistema Onu. Sulla deforestazione, sulle emissioni di metano, sulla transizione a mobilità a emissioni zero (e qui l’Italia manca, non ha aderito), l’alleanza Boga, oltre il petrolio e il gas, anche qui Italia presente solo come «amico». Ora, dicevo, la sfida è vedere se questi impegni saranno mantenuti, e anche se sono praticamente realizzabili. Se fra un paio d’anni le emissioni saranno aumentate rispetto al 2019 anziché diminuire, a rischio sarà la credibilità delle COP e delle Nazioni Unite, ma soprattutto a rischio, a causa di cambiamenti climatici verso l’ingestibile, sarà la società umana.