Dagli Stati uniti alla Francia, dall’Italia a Londra e Berlino assistiamo a uno spropositato accanimento repressivo e censorio contro sempre più estesi movimenti collettivi e prese di posizione individuali a favore della causa palestinese. E contro l’invasione israeliana di Gaza.

L’intensità del fenomeno ha pochi precedenti.

Si reprimono, a suon di manganelli e arresti, manifestazioni e assemblee in numerose università europee e americane, dalla Columbia a Berkeley e Yale, da Firenze e Pisa a Roma e Torino, si annullano inviti e premiazioni, si sospendono insegnamenti, si proibiscono convegni, si respingono ai confini intellettuali ed esponenti politici colpevoli di solidarizzare con i palestinesi.

Clamoroso il caso dell’ex ministro delle finanze greco Varoufakis e del rettore dell’università di Glasgow, il chirurgo palestinese Ghassan Abu Sitta, banditi dal suolo tedesco dove avrebbero dovuto partecipare a un convegno, poi sciolto d’ufficio, sulla Palestina.

Del proibizionismo antipalestinese sono cadute vittima, fra altri, Nancy Fraser e Judith Butler. Grandi e piccoli episodi di censura preventiva, fondati sull’ambiguità di qualche post o sul puro e semplice sospetto che in occasione di questa o quella manifestazione potessero esprimersi tonalità ritenute antisemite, si ripetono con frequenza quotidiana.

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Dalla Guerra dei sei giorni nel 1967 ad oggi in diverse occasioni, quando il conflitto mediorientale si scaldava e i palestinesi finivano in genere per pagarne il conto più salato, anche nei paesi saldamente alleati di Israele lo spazio per una critica spesso rumorosa e intransigente della politica e dell’azione militare di Tel Aviv non è mai stato interamente precluso e demonizzato come invece accade oggi. L’Onu, le cui risoluzioni restavano comunque lettera morta, non veniva insistentemente accusata di far da sponda al terrorismo.

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Cosa è successo allora perché ogni voce di condanna dell’operato di Israele dovesse essere immediatamente tacitata e repressa anche a costo di calpestare principi basilari dello stato di diritto come la libertà di espressione e manifestazione? Per giunta nel momento in cui perfino l’amministrazione americana non riesce più a celare il proprio disappunto (pur senza conseguenze sull’alleanza di ferro con Tel Aviv) per la piega presa dalla guerra di Netanyahu e per le violenze perpetrate dai coloni in Cisgiordania.

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La feroce aggressione del 7 ottobre, nei suoi aspetti raccapriccianti e nella sua valenza di minaccia per il futuro segna certamente una prima comprensibile cesura, fornendo un’immagine odiosa che a partire dal fanatismo di Hamas veniva però strumentalmente spalmata sull’intera controparte palestinese.

In conseguenza lo schieramento filo-israeliano non chiedeva semplicemente a tutti di condannare senza ambiguità né reticenze quell’orrore e chi lo aveva effettivamente perpetrato, bensì di condannarlo in una forma che legittimasse implicitamente la reazione israeliana, ovverosia il massacro indiscriminato, comunque lo si voglia catalogare, della popolazione palestinese della Striscia di Gaza. Il riconoscimento, insomma, di un diritto alla vendetta senza limitazioni di sorta.

E qui veniamo alla seconda ragione che impone di mettere immediatamente a tacere qualunque difesa della vita e della causa palestinese: il fatto cioè che l’azione dell’esercito israeliano nella Striscia è assolutamente indifendibile, fuori da qualunque proporzionalità e da qualunque norma o criterio umanitario volto ad arginare l’efferatezza di quella guerra.E poiché è indifendibile, lo sterminio dei palestinesi di Gaza deve essere anche innominabile.

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Prendiamo il caso della Germania: come si fa a scolpire nella propria ragion di stato non dico l’esistenza e la sicurezza dello stato di Israele, cosa storicamente dovuta, ma qualunque azione, a prescindere da ogni motivo di moderazione e umanità, compiuta dal governo di quello stato?

Come si fa a rifornire di armi e munizioni un esercito intento a sterminare, direttamente o indirettamente, decine di migliaia di civili intrappolati senza scampo?

Come si fa a mendicare un cessate il fuoco, ripetutamente rifiutato, quando si disporrebbe degli argomenti e degli strumenti necessari per imporlo?

Come si fa a sostenere un governo che conta tra i suoi ministri determinanti dei fanatici inebriati da miti suprematisti che guidano i coloni israeliani in Cisgiordania secondo una logica e una pratica da Ku Klux Klan?

Poiché tutto questo non si potrebbe evidentemente fare ma lo si fa, allora tanto vale tacciare chiunque lo denunci di antisemitismo (nel caso anche di incitamento al terrorismo) e togliergli immediatamente la parola.

Laddove i contorni di questa infamante definizione sfumano e si estendono fino a includere indebitamente qualunque denuncia di un governo screditato che gioca al massacro per assicurare non la sopravvivenza di Israele e la sua sicurezza, ma la propria continuità in uno stato di guerra che rinvia sine die la resa dei conti sull’assassinio, ad opera di Netanyahu e dei suoi complici suprematisti, della pur imperfettissima democrazia israeliana.