Varoufakis: «Ora l’unica strada è gestire bene il Grexit»
L'intervista L'ex ministro delle finanze greco rilascia al settimanale britannico "New Statesman" la prima intervista dopo le sue dimissioni. E non risparmia dettagli e retroscena su nulla di quanto accaduto negli ultimi cinque mesi
L'intervista L'ex ministro delle finanze greco rilascia al settimanale britannico "New Statesman" la prima intervista dopo le sue dimissioni. E non risparmia dettagli e retroscena su nulla di quanto accaduto negli ultimi cinque mesi
Harry Lambert del «New Statesman» ha realizzato la prima intervista a Yanis Varoufakis dopo le sue dimissioni dal governo greco. Una conversazione telefonica pubblicata integralmente sul sito newstatesman.com che ha avuto luogo prima dell’accordo di domenica notte. Ne pubblichiamo alcuni stralci.
Harry Lambert: come ti senti?
Yanis Varoufakis: (…) mi sento sollevato nel non dover più sostenere questa pressione incredibile a negoziare da una posizione che giudico difficile da difendere. (…) Le mie peggiori paure si sono confermare, ma la situazione si è rivelata perfino peggiore.
A che ti riferisci?
Alla mancanza totale di qualsiasi scrupolo democratico da parte dei supposti difensori della democrazia europea. (…) Nell’eurogruppo ho visto il più totale rifiuto a discutere di argomenti economici. Dicevo cose che avevo studiato a fondo e mi guardavano a occhi sbarrati. Come se fossi trasparente o non avessi detto nulla. Potevo cantare l’inno nazionale svedese e per loro era uguale. Per uno come me abituato al dibattito accademico è stato allucinante.
Questo atteggiamento c’era già quando sei arrivato, all’inizio di febbraio?
All’inizio alcuni si mostravano comprensivi a livello personale, anche nel Fmi. Ma poi ciascuno si trincerava dietro al copione ufficiale. Schäuble è stato coerente fin dall’inizio. Diceva che le elezioni in Grecia non potevano cambiare le decisioni assunte dai governi precedenti perché in Europa ci sono elezioni ogni mese e non si possono cambiare gli accordi ogni volta. A quel punto gli ho risposto che allora le elezioni nei paesi indebitati si potevano anche abolire. Rimase zitto. Forse pensava fosse una buona idea, anche se di difficile attuazione.
E Merkel?
Non era un mio interlocutore. (…) Mi hanno detto che lei era molto diversa. Che tranquillizzava il primo ministro (Tsipras, ndr) dicendogli: «Troveremo una soluzione, non ti preoccupare, fai i compiti a casa, lavora con la troika e tutto andrà bene, non accadrà nulla di terribile». Non era quello che sentivo io dalle mie controparti, il capo dell’eurogruppo e il dott. Schauble.
Perché siete arrivati all’estate allora?
Non avevamo un’alternativa. Il nostro governo era stato eletto con un mandato a negoziare. Per cui il primo obiettivo era guadagnare il tempo e lo spazio per farlo: negoziare e raggiungere un accordo. Non abbiamo mai rovesciato il tavolo dei creditori. Ma il negoziato è durato tanto perché i creditori non volevano assolutamente negoziare.
Ti faccio un esempio. Ci dicevano: abbiamo bisogno di tutti i dati fiscali e di tutti i dati sulle imprese a partecipazione pubblica. Abbiamo passato giorni a dargli questi dati e rispondere a dei questionari. Passata questa fase, ci hanno chiesto cosa volevamo fare con l’Iva. Glielo dicevamo e loro dicevano no senza proporre alternative. Poi passavano a un’altra questione, tipo le privatizzazioni. Gli raccontavamo le nostre intenzioni, le rifiutavano e passavano oltre, senza mai arrivare a nessun punto. Un cane che cerca di mordersi la coda. (…)
Fin dall’inizio la mia proposta era questa: la Grecia è fallita molto tempo fa, siamo d’accordo che va riformata. Ma il tempo è sostanza, e la Bce stava stringendo la liquidità per metterci pressione e farci capitolare. Alla troika ho detto: mettiamoci d’accordo su 3-4 cose, tipo il fisco e l’Iva e attuiamole subito. Voi in cambio limitate la stretta alla liquidità della Bce. Nel frattempo troviamo un accordo ampio e noi lo portiamo in parlamento.
Ci hanno detto: «Non potete introdurre leggi in modo unilaterale, sarebbe un atto ostile durante il negoziato». Dopo un po’ di mesi hanno fatto filtrare sui media che non avevamo approvato nulla e volevamo solo perdere tempo. (…) Finché la liquidità è stata tagliata del tutto e siamo finiti in default o quasi, verso il Fmi. Solo allora hanno fatto le loro proposte… tossiche e totalmente impraticabili. La tipica proposta che fai quando non vuoi un accordo.
Gli altri paesi indebitati che atteggiamento hanno avuto?
Fin dall’inizio il governo di questi paesi ci ha fatto capire che noi eravamo il loro peggior nemico. Il loro peggior incubo era un nostro eventuale successo. Se la piccola Grecia avesse potuto ottenere condizioni migliori di loro, il loro capitale politico si sarebbe disintegrato. Avrebbero dovuto dire ai loro popoli che non erano stati capaci di negoziare come noi. (…) Anche Podemos, la loro voce non ha mai penetrato le mura dell’eurogruppo. Si sono espressi a nostro favore più volte, ma più parlavano più il loro ministro delle finanze diventava ostile nei nostri confronti. (…).
Qual è secondo te il problema principale nel funzionamento dell’eurogruppo?
C’è stato un momento in cui effettivamente il presidente dell’eurogruppo ci ha cacciato via, facendo sapere che la Grecia era essenzialmente fuori dall’euro. C’è una convenzione per cui i comunicati dell’eurogruppo devono essere unanimi e il presidente non può escludere un paese dell’eurozona. Dijsselbloem ci ha detto: «Certo che posso farlo, ho chiesto un parere legale». A quel punto i lavori si sono fermati per una decina di minuti e ognuno si è aggrappato al telefono chiedendo ai propri esperti. Uno di loro, lì presente, mi si è avvicinato: «Devi capire che l’eurogruppo non esiste né per legge, né nei trattati». Quindi questo gruppo inesistente ha il potere più grande per decidere le vite degli europei. Non risponde a nessuno, non è codificato per legge, non ci sono verbali delle sue riunioni, agisce solo in maniera riservata. Nessun cittadino sa cosa venga detto lì dentro. E spesso sono decisioni di vita o di morte.
L’eurogruppo è controllato dal Germania?
In tutto e completamente. Il ministro delle finanze tedesco è il direttore d’orchestra. Tutti si accordano a lui e ne seguono il ritmo. Se l’orchestra stona, la rimette subito in riga.
Non ci sono contrappesi? Per esempio la Francia?
Il ministro francese emette rumori diversi da quelli tedeschi, rumori molto sottili. Ha usato sempre un linguaggio molto giudizioso, per non entrare in contrasto col collega tedesco. Non suonava lo stesso identico spartito ma non si è mai opposto. Alla fine la Francia ha sempre accettato le conclusioni del dott. Schäuble.
(…) pensi ancora che dopo Syriza l’unica alternativa in Europa saranno forze come Alba dorata in Grecia?
Nulla è determinato. Syriza oggi è una forza dominante. Se usciamo da questo disastro uniti e gestiamo un Grexit in modo appropriato, allora ci sarà un’alternativa. Non sono sicuro che abbiamo tutte le competenze tecniche e finanziarie per gestire l’uscita della Grecia dall’euro. Speriamo che ci aiutino esperti anche dall’estero.
Pensavi alla Grexit fin dal primo giorno?
Sì, certo.
E hai fatto preparativi?
Sì e no. Avevamo un piccolo gruppo, un «gabinetto di guerra» al ministero fatto da circa 5 persone. Ci siamo preparati sulla carta, in teoria, ma una cosa è parlarne tra 5 persone, un’altra preparare un’intera nazione a farlo. Serviva un ordine esecutivo per farlo. Che non è mai arrivato. Io pensavo che non dovessimo essere noi a decidere per il Grexit. Non volevo che diventasse una profezia che si autoavvera. (…) Credevo però che nel momento in cui l’eurogruppo ha chiuso le nostre banche avremmo dovuto dare più forza al processo.
Quindi, per quanto posso capire, c’erano solo due opzioni: una Grexit immediata o stampare una moneta parallela (Iou) e prendere il controllo della Banca di Grecia…
Sì. Non ho mai pensato di introdurre una nuova moneta. La mia visione – espressa nel governo – era che se avessero chiuso le nostre banche – cosa che io considero tuttora una mossa aggressiva di incredibile potenza – avremmo dovuto rispondere in modo altrettanto aggressivo, anche se senza passare il punto di non ritorno. Avremmo dovuto fare tre cose: emettere i nostri «Iou» o almeno annunciare che eravamo pronti a farlo, tagliare il nostro debito detenuto dalla Bce o almeno annunciare che eravamo pronti a farlo, e prendere il controllo della Banca centrale di Grecia. Avevo avvertito il governo che avrebbero chiuso le nostre banche per un mese, per costringerci a un accordo umiliante. E quando è successo molti miei colleghi ancora non potevano credere che stesse accadendo. E le mie raccomandazioni a rispondere in modo «energico», in ogni caso, sono state sconfitte in un voto.
Di quanto sconfitte?
Su sei persone abbiamo votato a favore solo in due. Quindi ho dato ordine di chiudere le banche in modo consensuale con la Bce e la Banca di Grecia. Anche se ero contrario so giocare in squadra e credo molto nella responsabilità collettiva.
Poi c’è stato il referendum.
Il referendum ci ha dato una forza incredibile. Che poteva anche giustificare una reazione dura contro la Bce ma quella stessa notte, mentre il popolo faceva esplodere il suo «no», il governo ha deciso di non adottare l’approccio «energico». Al contrario, il referendum doveva portarci a fare maggiori concessioni alle controparti: l’incontro del primo ministro con i partiti di opposizione aveva stabilito già che qualunque cosa fosse successa, qualunque cosa l’altra parte ci avesse fatto, noi non avremmo mai risposto in modo da sfidarli. E quindi essenzialmente avremmo iniziato a seguirli…senza più negoziare.
Sembri senza speranza, pensi che l’accordo in discussione sarà meglio o peggio?
Sarà molto peggio. Ho enorme fiducia nel nostro governo. Ma non vedo come il ministro tedesco possa acconsentire alla ristrutturazione del debito. sarebbe un miracolo (…).
(…) Capisco molto poco della tua relazione con Tsipras.
Lo conosco dal 2010, perché all’epoca ero molto critico con il governo anche se ero vicino alla famiglia Papandreou – e in un certo senso ancora lo sono. (…) Tsipras era un leader molto giovane che cercava di farsi un’idea di quanto stava accadendo, quali erano le cause della crisi e come doveva posizionarsi.
Ti ricordi il vostro primo incontro?
Certo, era la fine del 2010. Eravamo in un caffè, eravamo in tre. E all’epoca Tsipras non aveva le idee chiare sulla dracma o sull’euro. Io invece avevo idee molto precise su quanto stava accadendo. E da lì abbiamo iniziato a parlarne. Un dialogo mai interrotto, che credo abbia contribuito a formare le sue opinioni.
Come ti senti, dopo quasi cinque anni, a non lavorare più con lui?
Non è così perché siamo ancora molto vicini. Ci siamo lasciati in modo molto amichevole. Non abbiamo mai avuto un problema tra di noi. Mai, fino ad oggi. E poi sono molto vicino al mio successore, Euclid Tsakalotos. Non parlo più con Tsipras da un paio di giorni ma parlo tutti i giorni con Euclid. Non lo invidio.
Ti stupirebbe se Tsipras si dimettesse?
Niente mi stupisce più in questi giorni. La nostra eurozona è un luogo estremamente inospitale per le persone integre e oneste. Non mi stupirebbe nemmeno se accettasse un accordo molto brutto. Perché so che lo farebbe per il senso di responsabilità che prova verso il popolo e la sua gente. Perché non vuole che la nostra nazione diventi un paese fallito. Ma non tradisco le mie opinioni, elaborate dal 2010, secondo cui questo paese deve smetterla di chiedere prestiti e aumentare il debito pensando di risolvere i propri problemi. Perché non ha funzionato e non funziona.
Stiamo solo rendendo il nostro debito ancora meno gestibile, generando condizioni di austerità che ridurranno ulteriormente la nostra economia e trascineranno il peso della crisi ancora sulle spalle di chi non ha, creando una vera crisi umanitaria. Non lo accetto e non voglio farne parte.
- Leggi l’intervista rilasciata a New Statesman
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