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Torino, sciopero alla rovescia dei ricercatori precari contro il lavoro gratuito

Torino, sciopero alla rovescia dei ricercatori precari contro il lavoro gratuitoRicercatrici precarie, lunedì a Torino

Università Sono più di 300 i ricercatori precari che aderiscono all'ingegnosa protesta contro il taglio dei fondi e per il riconoscimento dei diritti sociali. Nel corso della loro carriera forniscono un contributo gratuito pari al lavoro di tutti i dipendenti della regione Piemonte per due anni. "Serve l'unità con gli altri lavoratori della conoscenza, fuori e dentro l'università". Il governo pensa di affrontare l’emergenza con 861 posti. In tutta Italia. Sono 1,2 ricercatori per dipartimento

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 1 marzo 2016

All’università di Torino sei ricercatori su dieci sono precari, il sessanta per cento. È uno dei dati più alti in Italia, dove la media è comunque impressionate: siamo al 57%. Molti di questi ricercatori sono in scadenza di contratto e di borsa. E, vista l’esiguità delle risorse a disposizione, saranno costretti a lavorare gratis per terminare compiti di ricerca, didattica o amministrativi.

La somma delle prestazioni gratuite svolte dai soli assegnisti di ricerca- hanno calcolato i ricercatori precari torinesi che partecipano dal 2 febbraio allo «sciopero alla rovescia» indetto dal coordinamento nazionale Crnsu – è «pari al lavoro di tutti i dipendenti della regione Piemonte per due anni».

Intermittenza del lavoro, lavoro gratuito e nessuna tutela. Una realtà drammatica alla quale il governo Renzi pensa di avere risposto finanziando 861 posti da ricercatore. In tutta Italia. «A Torino arriveranno 31 posti per 27 dipartimenti – calcola Valeria Cappellato, 42 anni, assegnista e specializzata nell’implementazione dei servizi per malati neuro-degenerativi – Corrispondono all’1,2 per cento dei docenti strutturati. È insufficiente: nei prossimi cinque anni andranno in pensione in 20 mila. Dal 2008 sono stati 10 mila e poi c’è il blocco del turn-over». Per i ricercatori precari la richiesta di un massiccio rifinanziamento della ricerca e dell’università è accompagnata da quella del riconoscimento dei diritti sociali fondamentali.

Per loro l’iscrizione alla gestione separata dell’Inps non prevede l’erogazione del sussidio di disoccupazione «Dis-Coll». E questo nonostante versino i contributi. «Per il ministro Poletti non siamo lavoratori, ma in formazione – continua Cappellato – Ci troviamo nella stessa situazione degli altri lavoratori della conoscenza o indipendenti. Come i giornalisti, ad esempio».

Ieri a Torino, e a Firenze, i ricercatori hanno organizzato lezioni nell’ateneo e sono intervenuti negli organi accademici per presentare lo sciopero alla rovescia: come 60 anni fa Danilo Dolci, oggi continueranno a lavorare indossando le magliette rosse con due strikers che incrociano le braccia. A Torino ne sono state vendute 300, al dipartimento di Agraria ne hanno stampate altre in proprio. Quindi i ricercatori in sciopero sono molti di più. Il prorettore Federico Bussolino e il rettore Giammaria Ajani hanno solidarizzato con la protesta dei ricercatori.

«Oggi credo sia importante creare un dialogo tra le varie figure dei precari, dentro e fuori dall’università, malgrado la frammentazione» aggiunge Cappellato. Marianna Filandri, 39 anni, ha un assegno da sei anni a Torino e lavora sulle politiche di contrasto alla disoccupazione giovanile. Il suo contratto scade ad ottobre: «Spero in una nuova iniezione di risorse – afferma – altrimenti mi impegnerò come fanno altri in progetti di ricerca e a trovare nuovi canali di studio finanziati». «Il problema non è solo il nostro destino individuale: le carriere precarie sono le più disparate, ci sono persone con mutuo, con o senza bambini – precisa – Non a caso l’hashtag su twitter è #ricercaprecaria e non #ricercatoriprecari. Vogliamo sottolineare il fatto che l’impossibilità di fare ricerca in maniera continuativa ha conseguenze sulla qualità della ricerca. Questo non è un problema che riguarda solo le storie individuali, noi crediamo nell’università pubblica. È un bene comune e come tale va finanziata«.

E se il governo non vi ascolta? «Non esistono alternative: le condizioni peggioreranno ancora».

Dossier: #Salviamolaricerca

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