La lettera firmata da 4mila accademici a metà novembre non è passata inosservata: al governo italiano chiedevano un intervento per il cessate il fuoco a Gaza, agli atenei di interrompere i rapporti con le università israeliane impegnate nel mantenimento dell’occupazione israeliana. Ne abbiamo parlato con una delle firmatarie, Paola Rivetti, docente di relazioni internazionali alla Dublin City University.

La lettera è netta nella richiesta di cessate il fuoco e riprende posizioni assunte da istituzioni internazionali come l’Onu: condanna di Hamas e condanna di Israele e la richiesta di porre fine subito al massacro, ma anche all’occupazione coloniale e militare israeliana. Perché oggi tali posizioni sono considerate di parte?

L’appello riflette la necessità morale di una parte consistente dell’università italiana di non rimanere in silenzio di fronte alle violenze in Palestina e Israele, chiedendo con forza un cessate il fuoco immediato. I civili vittime dei bombardamenti a Gaza sono ormai oltre 15000 – anche se il numero reale dei morti potrebbe essere molto più alto – e da parte israeliana vi sono morti e ostaggi. Di fronte a questa catastrofe, abbiamo chiesto un intervento del ministro degli esteri Tajani per riaffermare il diritto internazionale che protegge i civili e ne garantisce la sicurezza in situazioni di conflitto. Come numerosi analisti hanno sottolineato, una delle trasformazioni a cui assisteremo nei prossimi anni riguarda proprio la protezione dei civili durante i conflitti. L’apparato giuridico costruito dopo la seconda guerra mondiale, che ha lo scopo di indicare cosa è legittimo e cosa no durante un attacco militare, è stato in queste settimane fortemente compromesso. Se una famiglia rifugiata in un ospedale a Gaza, il personale medico e i pazienti dello stesso possono considerarsi obiettivo militare, allora la stessa logica potrà applicarsi ad altri civili in altre situazioni. Che la difesa della vita di famiglie, di bambini e bambine, sia considerata «di parte» è un segnale inquietante di quanto questa guerra a Gaza cambierà le regole che esistono dal 1945. La violenza con cui si disumanizzano i civili palestinesi e la leggerezza con cui si scrive che le agenzie delle Nazioni unite attive a Gaza per gestire gli aiuti umanitari internazionali intrattengono rapporti «controversi» con Hamas, non hanno precedenti e sono di una gravità inaudita.

Penso che questo appello, legittimo nelle richieste e nella forma, sia considerato «di parte» per effetto della normalizzazione di una situazione di occupazione che, secondo la legge internazionale e le risoluzioni Onu, va avanti dal 1967 in maniera illegale. Tale normalizzazione ha portato con sé una serie di conseguenze che rendono oggi la nuda vita dei palestinesi, la loro stessa sopravvivenza, e la richiesta che questa venga protetta e garantita (come richiesto anche da molti israeliani) delle questioni «controverse».

La lettera ha sollevato molte polemiche, ma anche critiche «dialettiche» di chi ritiene che la ricerca sia sempre uno strumento di pace e di chi non ha aderito citando la libertà dell’accademia dai poteri politici e il ruolo plurale delle università nella contestazione dei governi o dei regimi. Cosa ne pensate?

L’interruzione dei rapporti istituzionali con le università israeliane è uno strumento non violento che ha oltre vent’anni di storia ed è sostenuto da numerose illustri colleghe e colleghi nel mondo, come Judith Butler, nonché adottato da importanti organizzazioni professionali, come l’American Anthropology Association, la British Middle East Studies Association, l’American Studies Association, l’Association for Asian American Studies, l’Association for Humanist Sociology, e altre. Si tratta di un mezzo – e non di un fine – volto a mettere pressione sulle istituzioni perché si ottenga il rispetto della legge internazionale, che prevede la fine dell’occupazione, della colonizzazione dei Territori occupati e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi del 1948 e successivamente. È la stessa logica che fu alla base del boicottaggio culturale e accademico contro il Sudafrica dell’apartheid. L’interruzione dei rapporti accademici non significa l’isolamento dei colleghi e colleghe in Israele che lottano contro le scelte del proprio governo.

La sospensione dei rapporti, come sottolineato nella petizione, riguarda l’interruzione di collaborazioni istituzionali. Il dialogo con i colleghi è una risorsa che coltiviamo attraverso la ricerca, le pubblicazioni e l’impegno comune: nessuno impedisce loro di partecipare a convegni o ricevere inviti. È necessario distinguere tra istituzioni e individui, come è necessario riconoscere che le università israeliane, in quanto istituzioni statali, non sono purtroppo luoghi aperti e caratterizzati da una cultura liberale e plurale come ci si aspetterebbe. Dal 7 ottobre 2023 è in corso un’intensificazione della repressione, con sospensioni e licenziamenti nei confronti di studenti e docenti che chiedono un cessate il fuoco o esprimono solidarietà alla popolazione civile palestinese. La professoressa Nurit Peled (David Yellin Academic College of Education, premio Sakharov per la Libertà di Pensiero nel 2001 dal Parlamento europeo), la professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian (Hebrew University) e il professor Uri Horesh (Achva Academic College) sono stati sanzionati (Horesh licenziato) per le loro posizioni critiche del governo Netanyahu.

Inoltre, in Italia non è sufficientemente diffusa la conoscenza del ruolo delle università israeliane nell’industria militare: dalla messa a punto di nuove armi e tecnologie di guerra, poi testate sulla popolazione palestinese (come il Technion), alle tecnologie di sorveglianza (come Pegasus, usato da regimi autoritari arabi per colpire gli attivisti per i diritti umani e dagli stessi governi europei) allo sviluppo di teorie volte a giustificare lo spossessamento della popolazione palestinese e l’uso della violenza contro di essa. Come dimostra il caso dell’Università di Ariel (costruita nell’insediamento illegale di Ariel in Cisgiordania), le istituzioni accademiche sono un tassello fondamentale nel mantenere e avanzare l’occupazione, in violazione dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, secondo cui il trasferimento della popolazione civile in questi insediamenti costituisce un crimine di guerra. Ciò mentre i colleghi e gli studenti palestinesi nei Territori occupati sono sistematicamente privati del loro diritto a una vita accademica degna di questo nome. Solo nelle ultime settimane sono morte centinaia di studenti e di accademici a Gaza sotto le bombe.

Contro il Sudafrica dell’apartheid il boicottaggio culturale e accademico fu un elemento fondamentale e condiviso. Cosa cambia oggi? Il soggetto a cui è rivolto o un approccio diverso alla forma stessa di boicottaggio?

Per anni, il boicottaggio contro le istituzioni sudafricane fu considerato controverso. Sappiamo come iniziò, ovvero con la mobilitazione di studenti, lavoratori e organizzazioni di sinistra e anti-razziste, e sappiamo che altre categorie furono più lente nell’aderirvi, come i professori universitari. Anche se in queste settimane abbiamo visto come le richieste di interruzione dei rapporti istituzionali e commerciali con Israele si sia diffusa e sia al centro delle moltissime mobilitazioni che vediamo in Italia e nel mondo, nel caso specifico del boicottaggio accademico, io credo che permangano dei pregiudizi ideologici. Ad esempio, l’idea che l’accademia sia un luogo di libero scambio di opinioni e che i boicottaggi siano una pratica estranea a tali luoghi. Storicamente, alle donne e alle minoranze razzializzate è stato negato l’accesso al’’istruzione superiore.

Più recentemente pensiamo a cosa sta accadendo in queste settimane nelle università in Europa e Nord America, templi, si direbbe, della libertà accademica. Non solo assistiamo alla criminalizzazione delle società studentesche, come Jewish Voices for Peace, e ad arresti dei colleghi/e che li difendono, ma anche a sospensioni, licenziamenti, procedure di investigazioni contro colleghi/e che chiedono un cessate il fuoco o esprimono solidarietà alla popolazione civile palestinese. Inoltre, i boicottaggi sono parte integrante della nostra vita accademica: pensiamo al recente boicottaggio contro le istituzioni filo-governative russe, a cui moltissime istituzioni italiane e non solo si sono affrettate ad aderire. La Commissione europea ha già annunciato che le università palestinesi saranno sottoposte a forme di controllo più stringenti per garantire che non intrattengano rapporti con attori che agiscono in contravvenzione al diritto internazionale. In che modo mettere pressione sulle istituzioni israeliane perché il diritto internazionale venga da loro rispettato, è quindi oggi sbagliato o una pratica non convenzionale? Rompere il mito delle università come luoghi di libertà ed emancipazione sempre e comunque significa anche esser più efficaci nel sostenere chi, dentro quelle stesse istituzioni, si batte per un mondo più giusto. Non è un caso che le associazioni professionali che hanno assunto posizioni critiche nei confronti delle università israeliane siano tra le più attive nel denunciare gli episodi di repressione contro colleghi e studenti, alcuni dei quali ho indicato sopra.

L’appello è rivolto anche alla Conferenza dei rettori delle università italiane perché sospenda le relazioni con le università israeliane impegnate nel mantenimento dell’occupazione militare attraverso ricerche, studi, implementazione di progetti per la sorveglianza, ma anche attraverso il mancato impegno sul fronte del rispetto del diritto internazionale. Come questa richiesta viene incontro alla libertà che va garantita all’accademia?

Credo che qui si apra un ulteriore livello di analisi, che riguarda il potere che hanno gli attori economici privati nelle università oggi. L’autonomia della ricerca da interessi di tipo economico è un elemento importantissimo: la libertà accademica ha infatti una dimensione anche materiale e concreta, che ha a che vedere con l’indipendenza che il non dipendere interessi economici specifici garantisce. Il rifiutarsi di collaborare con multinazionali ed enti impegnati nello sviluppo di tecnologie di guerra significa anche garantirsi un’autonomia di lavoro dagli interessi di questi, oltre ad assumere una posizione etica e morale che serve a proteggere dignità e diritti umani.