Visioni

Nanni Moretti, doppia fragilità intorno al dolore

Nanni Moretti, doppia fragilità intorno al doloreMargherita Buy e John Turturro, sotto Nanni Moretti

Al cinema Il 16 aprile nelle sale «Mia madre», il nuovo film di Nanni Moretti, la scommessa intima di un’autobiografia attraverso la quale il regista romano interroga le proprie immagin

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 14 aprile 2015

Domanda: «Pensi di avere rotto qualcuno dei tuoi duecento schemi con questo film?» Risposta: «Non sta a me a dirlo». Conferenza stampa dopo la proiezione di Mia madre, il nuovo film di Nanni Moretti (in sala il 16) che a quanto si dice dovrebbe essere nella selezione del prossimo Festival di Cannes. Gli «schemi»: il salotto, la casa dei genitori che quando sei grande appare estranea, la nostalgia di un qualcosa che non tornerà più. Il «dì qualcosa di sinistra», il «film nel film», il riferimento generazionale, l’attesa di un discorso sullo stato delle cose, l’intransigenza spavalda. E poi?

Triangolazione. Sul set Margherita gira una scena notturna. L’assistente alla regia le dice qualcosa, il viso teso, la madre è malata, sta per morire. Pensiamo che è morta. Vuoi fermare la scena, le chiede. No, risponde lei, si gira. Perché finché stai lì forse non è vero, forse non succede.Stacco. Margherita e il fratello guardano la madre, respira a fatica. Non li vediamo più, sentiamo il telefono squillare, la voce dell’ex-marito di Margherita chiede: «Quando è sucesso?», la figlia di Margherita, adolescente, che adora la nonna nasconde la testa sotto le coperte e scoppia a piangere.

Mia madre è un film stranissimo, spiazzante nel movimento emozionale, sbilenco nella grana dell’immagine volutamente opaca (la fotografia è di Arnaldo Catinari), e nel montaggio (di Clelio Benevento) che mescola con passaggi bruschi il flusso del cuore e il quotidiano, gli incubi e i rimorsi che hanno l’immagine di una macchina, quella della madre, fracassata dalla figlia contro il muro. Il corpo corpo con l’ esistenza e la necessità comunque di essere nel presente. Ma è proprio in questo spaesamento, costante nel suo pudore, che accade la «rottura» più netta con quei «duecento schemi» dei fraseggi morettiani.

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È un film autobiografico Mia madre? Il riferimento è alla mamma del regista, Agata Apicella Moretti – qui Ada, meravigliosa Giulia Lazzarini – professoressa di latino al liceo (chi è stato a Roma al Visconti in quegli anni non può dimenticarla) morta durante il montaggio di Habemus Papam. La protagonista di Mia madre, Margherita Buy (sempre più brava), è una regista, è spigolosa, severa, giudicante,urla sul set, e si arrabbia con i suoi assistenti che le danno ragione. Non ti sta mai bene niente le dice il compagno ormai ex – lo ha lasciato durante le riprese (Enrico Iannello). Somiglia a Moretti ma non è lui. Il film che sta girando intanto non è per niente morettiano (e non sembra nemmeno tanto bello a dire il vero), parla di operai oggi che cercano di resistere alla chiusura della fabbrica e ai licenziamenti.

L’attore americano che interpreta il nuovo padrone, una specie di Marchionne (John Turturro) è fanfarone (persino esageratamente)e col mito della Roma da Grande bellezza, dimentica le battute, si impappina fa perdere tempo e soldi. Margherita è confusa, ripete come in trance che il cinema deve «incidere sulla realtà» ma non ci crede. Non le piacciono le comparse, i ragazzi hanno le sopracciglie sfilate, le ragazze la bocca rifatta. Volevo degli operai dove il hai trovati questi chiede al suo aiuto. E lui le risponde che la gente è così, è lei che non sa guardare la realtà. Forse perché ha la testa altrove, le hanno detto che sua madre sta morendo.

Margherita non ci vuole credere, respinge la realtà (appunto), e mentre passa tra il set e l’ospedale e la figlia adolescente che va male in latino (la materia insegnata dalla madre) – è la giovanissima e tenera Beatrice Mancini – si scopre una sconosciuta fragilità. La vita le si srotola davanti come una vecchia pellicola, in fila davanti alla sala romana (il Capranichetta che non c’è più) per entrare al film di Wenders, Il cielo sopra Berlino, si rivede a vent’anni, con la sua durezza spavalda mentre lascia il fidanzato di allora ferito, rivede la mamma, il fratello, gli amici.

E Moretti? Ecco lui è il fratello Giovanni il suo opposto, quasi un’altra parte di sé: silenzioso, sempre presente (accudente), fa sempre la cosa giusta. Mentre lei compra il pollo freddo alla mamma in ospedale lui arriva con la pasta, il sugo fresco, tutto nelle scodelline, pure il dolce. Lei la morte la nega, lui la mette davanti all’evidenza delle cose e quando lei gli confida che l’ex ha detto cose bruttissime sul suo carattere lui sorride con divertita tenerezza.

Questo sentimento di inadeguatezza rispetto a sé, al proprio ruolo, al fatto che da lui si aspettava sempre una presa di posizione, una critica sul presente Moretti lo aveva espresso già in Habemus Papam, nella messinscena del Papa che fugge il suo compito perché non si sente in grado di sostenerlo. Stavolta però è diverso. C’è la storia, la morte della madre, che è un passaggio radicale dell’esistenza, ma soprattutto la dimensione privata non è una «prima persona» morettiana di altri tempi di un personaggio che si sovrimpressionava al suo attore/autore nei vezzi e nelle nevrosi, nelle espressioni «epocali» e nello sguardo sul mondo.

Mettetevi accanto al vostro personaggio, ripete Margherita ai suoi attori invitandoli a una tecnica di straniamento brechtiano. Moretti si mette accanto a lei, quasi a guardare da fuori sé stesso. Non è però demiurgo né io narrante perché il punto di vista coincide sempre con quello della donna, in cui intuiamo qualcosa di «maschile» – anche se nella scrittura ci sono molte donne, Valia Santella alla sceneggiatura insieme a Francesco Piccolo e allo stesso Moretti e nel soggetto anche Chiara Valerio e Gaia Manzini. Lo sguardo di rimpianto alla vicina di letto che mette sulle mani della madre malata la crema, una fisicità che forse appartiene più alle donne che ai maschi, e che lei non riesce a avere se non nella disperata ostinazione di negare la malattia. La figura di Moretti somiglia all’angelo wendersiano – per questo appaiono fuori luogo le notazioni realistiche sul suo lavoro, tipiche della sceneggiatura italiana che tutto deve chiudere – e questa dimensione surreale gli permette di «tradire» la distanza narrativa in una sincera intimità.

La madre, di cui i figli molto non sanno, che i vecchi allievi continuano a cercare, a cui la ragazzina confida i suoi segreti, i dolori del primo amore, sa trasmettere un sapere, una conoscenza anche di vita, a differenza di Margherita che non riesce a spiegarsi nemmeno sul set. Il film non è lei che racconta però ma loro, i figli (il figlio?) e il vuoto che lei lascia, come i suoi libri sugli scaffali messi negli scatoloni, che li spinge a interrogarsi. Moretti ci rende partecipi di questo passaggio privato e insieme universale, il dolore, il cambiamento, guardare il mondo, quel voler tornare alla realtà che non è chiaro cosa sia mentre conduce la sorella (sè stesso) a una diversa consapevolezza personale, artistica. E senza clamori né superiorità, anche nelle debolezze, lo fa con il cinema, il suo, che nel segno di una poetica trova il coraggio (raro) di uscire da sé.

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