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L’inferno degli ultimi internati di Aversa

L’inferno degli ultimi internati di AversaUna cella nell’Opg di Aversa – Cristofari/Tania

Opg addio I sogni e le paure dei 106 detenuti nel più antico Ospedale psichiatrico giudiziario d’Italia, aspettando l’imminente chiusura

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 7 marzo 2015

«E cosa succederà quando chiuderanno gli Opg? Io non voglio tornare nel reparto psichiatrico di un carcere perché gli unici che mi hanno aiutato sono stati gli infermieri e gli psicologi, mi fanno parlare e ridere… mi hanno fatto capire, e ricordare di quando mi legavano da piccolo perché non volevo lavorare». Gennaro è rinchiuso nel reparto 6 di Aversa, uno di quelli dove la sorveglianza è più accurata, con i poliziotti all’interno, i blindati aperti solo per una parte della giornata e la porta principale sbarrata perché gli internati qui non possono uscire nemmeno nel piccolo cortile recintato e sorvegliato. Nove anni fa Gennaro viveva a Forcella e faceva la vita tra Roma e Napoli, il cubista – «anche al Piper!», dice mentre mostra le foto sbiadite come è il ricordo del mondo oltre le sbarre – a colpi di «cocaina, acidi e anabolizzanti». Ma poi ha passato quasi un quarto della sua vita in carcere per un reato indicibile, cominciando da Secondigliano e finendo il suo viaggio di dolore dentro gli Ospedali psichiatrici giudiziari di mezza Italia.

Nell'Opg di Aversa (foto Cristofari/Tania)
Nell’Opg di Aversa (foto Cristofari/Tania)

È uno di quegli internati che si sono “ammalati” durante l’espiazione della pena in un carcere “normale” (in gergo, in art.148 del codice penale). Poi ci sono i «prosciolti» (quelli che non sono imputabili perché considerati completamente incapaci di intendere e volere), i “seminfermi”, e coloro che sono ancora in attesa di giudizio e che sono – come sempre – la maggior parte: 29 degli attuali 106 ospiti del manicomio giudiziario più antico d’Italia. Una magnifica struttura, quella di Aversa, con padiglioni, giardini e aree verdi, che dal 1876 campeggia nel centro della città campana e che è destinata purtroppo a rimanere un carcere, «non sappiamo se casa circondariale o a custodia attenuata – racconta la direttrice Elisabetta Palmieri -. Sicuramente però riassorbirà tutto il personale penitenziario dell’Opg, gli 80 agenti e i 35 civili». Come saranno riallocati invece gli altri lavoratori, i 130 sanitari che affiancano – con molte difficoltà organizzative – i dipendenti del Dap, nessuno lo sa.

Per fortuna di strada, dagli albori, da quando conteneva fino a mille persone compresi donne e bambini, ne ha fatta tanta perfino questo manicomio criminale che oggi appare al meglio possibile, con le pareti riverniciate quasi ovunque, le docce piastrellate e i bagni in ogni cella. Ma nei letti – da due a quattro per stanza – fungono da materassi pezzi maleodoranti e sporchi di gommapiuma. Il mobilio è inesistente, e quando c’è cade a pezzi. E, malgrado tutti gli sforzi del personale, il sudicio e il decadente sono le note preponderanti di ogni ambiente. Eppure, perfino così siamo ben lontani dal panorama che si presentò nel settembre 2008 agli occhi degli osservatori inviati dalla Commissione europea contro la tortura, la cui relazione costò all’Italia una condanna del Consiglio d’Europa. «Un inferno», ammette la direttrice che è qui dal 2012. «C’erano 350 internati per una capienza massima di 200 posti, due stanze con i letti di contenzione e un reparto chiamato “La Staccata”, dove si tenevano i prosciolti, che poi venne chiuso perché era in condizioni impossibili», racconta il comandante degli agenti penitenziari, Luigi Mosca, che si ricorda anche di Francesco Caruso, allora deputato di Rifondazione comunista, asserragliato nel 2008 nelle stanze della direzione per protestare contro il sovraffollamento disumano e che se ne andò solo quando arrivarono gli ispettori. E anche i soprusi erano tutt’altro che rari. Forse anche perché, come racconta Mosca, «il personale penitenziario non è mai stato formato adeguatamente per lavorare con i malati psichici». Poi, nel 2011, dopo la visita della commissione parlamentare d’inchiesta sul Ssn capitanata dall’allora senatore Ignazio Marino, dopo il video-choc e le cronache sui giornali, «qualcosa cominciò a cambiare».

Ma è negli ultimi mesi – dalla legge 81/2014 entrata in vigore nel giugno scorso che dopo due proroghe ha stabilito la chiusura degli Opg entro il 1° aprile 2015 – che si è impressa una forte accelerazione alle dimissioni degli internati considerati non più pericolosi. «È la stessa magistratura di sorveglianza che sprona ora le Asl a predisporre i progetti terapeutici-riabilitativi (Ptri) necessari per dimettere gli internati che hanno completato un percorso di cura oppure che hanno superato il limite massimo di permanenza negli Opg, il quale non dovrebbe superare la pena edittale del reato», raccontano la direttrice, il comandante e il capo area pedagogica, Angelo Russo.

Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa
Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa

Provengono soprattutto dalla Campania e dal Lazio, i 106 internati nei sei reparti funzionanti di Aversa, qualcuno dall’Abruzzo e dal Molise, pochi gli stranieri. Alla fine di ottobre erano 130, come testimonia Emilio Lupo, di Psichiatria democratica, che periodicamente visita il manicomio aversano. «Ogni settimana ci sono due o tre nuovi arrivi, ma le uscite sono certamente in numero superiore», fa il conto Mosca. Da aprile in poi però, stando alla legge, coloro che rimarranno negli Opg e che non saranno stati considerati nel frattempo dimissibili dovrebbero tornare nei luoghi di residenza, smistati nelle Rems (Residenze sanitarie per l’esecuzione delle misure di sicurezza) che sostituiranno gli Opg, approntate da ciascuna Regione per il proprio bacino di utenza e che a regime saranno gestite totalmente dalle Asl e non più dall’amministrazione penitenziaria (Dap). Il quadro della situazione però, secondo Psichiatria democratica, «è allarmante»: «Dalla seconda relazione trimestrale dei ministeri di Giustizia e Salute sullo stato di avanzamento del piano di dismissione degli Opg, si evince che solo quattro Regioni hanno dichiarato di essere in grado di rispettare la scadenza senza ricorrere al privato: Emilia Romagna, Campania, Calabria e Friuli Venezia Giulia, quest’ultima ricorrendo a strutture a gestione mista pubblico/privato. Ben 10 Regioni – Veneto, Toscana, Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna – non sono state in grado di indicare un termine certo per la presa in carico dei propri internati». In Piemonte poi, denuncia ancora Pd, si ricorrerà al “privato accreditato” e con paradossi inspiegabili: «La regione invierà gli internati sottoposti a regime di alta sicurezza a Castiglione delle Stiviere ma al contempo la provincia di Bolzano invierà i suoi alla comunità “Mauriziana” in Piemonte, mentre la Liguria invierà i suoi internati a Castiglione delle Stiviere». La Campania avrebbe già quasi pronte due residenze, a Baronia (Av) e a Calvi Risorta (Ce). Un’idea di come saranno queste Rems la si può avere nel reparto 9A, uno dei due padiglioni di Aversa gestiti esclusivamente da personale sanitario, dove vivono gli internati più “dimissibili”.

La polizia non entra, rimane oltre il giardino; le celle sono aperte tutto il giorno, come pure il portone d’ingresso. Florindo è contento di vedere una cronista del manifesto, perché ha «conosciuto Valentino Parlato» e da giovane faceva «il funzionario del Pdup». Gioca a carte con José Luis, che è uno dei pochi internati (37 su 106) a cui è concesso il lusso di lavorare. Luca, «il sindaco», invece si alza poco dal suo letto, ma è «spensierato e in ottima compagnia». Marco ha 41 anni, da 14 negli Opg, «stavo per fare il carabiniere»; per lui è quasi pronta una comunità terapeutica. Ivano, alle spalle Roma e anni di cocaina, oggi recita poesia su una ragazza che vede «oltre il muro dietro il quale sto morendo». Paolo, viterbese di 40 anni con «quasi una laurea in tasca» e uno sguardo lucido, non si capacita di essere approdato in un manicomio. «Da un mese sono qui e non sono ancora riuscito a vedere il mio avvocato né il garante dei detenuti – dice – malgrado abbia presentato tutte le “domandine” necessarie». Preferirebbe tornare al Regina Coeli, aggiunge, il carcere che ha conosciuto più volte per spaccio di droghe leggere. L’ha scontata tutta, la sua pena a 4 anni, «e non sono mai stato riconosciuto tossicodipendente», però «il marchio di recidivo» non aiuta di certo.

Carlo è teramano, ha 30 anni, in cura col metadone da dieci, e da quando ne aveva 17 entra e esce dalle galere: «Ho rapinato tutti i negozi che stanno sulla strada di Pannella», dice con un sorriso contagioso riferendosi al leader Radicale suo concittadino. «Avevo paura del lager di Aversa, ma invece sono qui da otto mesi e mi ha fatto bene». Sicuramente lo ha aiutato poter svolgere, pagato dal Dap, un lavoro così importante come piantonare notte e giorno il suo compagno di cella: «Giacomo è schizofrenico, tenta il suicidio in continuazione, legge la bibbia e mi chiama “fariseo” – racconta Carlo – ogni tanto mi picchia perché non gli faccio fare le docce fredde durante la notte come lui vorrebbe, oppure perché gli do solo 20 sigarette al giorno». «Dopo un lungo percorso riabilitativo – spiega l’educatore – Carlo potrebbe essere dimesso a breve». «Quando esco però – progetta il ragazzo – voglio un certificato di salute mentale. Perché sia chiaro: io qui dentro non ci voglio tornare più».

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