È partito con i fuochi artificiali. Le sparerà sempre più alte e sfacciate fino al 9 giugno. È la sua carta e altre non ne ha: se vincente lo decideranno gli elettori. Ha spopolato in libreria, auguriamoci che non replichi nelle urne. La caserma sdoganata sarebbe un ulteriore passo indietro e questo Paese ne ha già fatti parecchi. Ma il generale Roberto Vannacci non è un marziano arrivato chissà come. Non è neppure uno dei tanti truculenti che affollano i social e che in tempi migliori si sfogavano al bar, scelto da una politica cinica per calamitare il peggior voto. Strilla senza pudore quel che una parte sostanziale di questa destra, elettori ed eletti, condivide e a volte anche dice, salvo poi ripararsi dietro la codardia del «sono stato male interpretato».

Sulle classi-ghetto il generalissimo non la pensa diversamente dall’impagabile ministro Valditara. Sulle mazzate agli studenti che quando uno se le cerca se le cerca la vede più o meno come il capogruppo di FdI Tommaso Foti, quello del «era meglio mandarli a zappare». Sui tratti somatici non italo-arianeggianti delle atlete nere non è tanto distante da quel Lollobrigida che quando paventa «la sostituzione etnica» non ci dorme la notte. La sola differenza è che la spiattella con toni più aggressivi e senza orpelli.

Affermare che tutta la destra italiana, quando si guarda allo specchio, vede la grinta d’assalto del graduato futuro europarlamentare sarebbe sbagliato. Però quegli umori neri e quei pregiudizi viscerali non sono periferici o irrilevanti: senza quella componente, senza le sue pulsioni reazionarie e il suo rancore, una destra civile e liberale esisterebbe comunque, anzi esiste disseminata un po’ in tutti i partiti della maggioranza. Ma resterebbe al palo.

Negli stati maggiori della destra il generale Vannacci piace a pochissimi. C’è chi non lo sopporta perché davvero si vergogna della sua mancanza di vergogna. Ma sono molti di più quelli che lo detestano solo perché mette a nudo quel che dovrebbe essere tenuto quanto più possibile nascosto. Giorgia Meloni viene dalla scuola di Giorgio Almirante: sa che il doppiopetto vale più della divisa. Una cosa è sbraitare in Spagna: tutt’altra farlo in casa.

Si può essere sfrontati al punto di trasformare i vertici di una società pubblica come Leonardo in testimonial di partito, un’enormità con pochi precedenti, ma su faccende come la segregazione dei disabili, l’omofobia ostentata, un razzismo tanto profondo da essere forse inconsapevole conviene usare maggior prudenza. Altrimenti ci si rovinano le relazioni ovunque: oltre Tevere, nei salotti di Bruxelles, alla lunga persino nello studio ovale.
La leader che da oggi sarà capolista tricolore in tutte le circoscrizioni non poteva immaginare accompagnamento più stonato per la sua discesa in campo.

Non bisogna però credere che la nuova star della reazione italiana non sia anche una minaccia in sé. L’ipocrisia ha i suoi vantaggi: impone inibizioni, determina quel che non si dovrebbe pensare ma basta un niente perché il freno inibitorio salti. È già successo con Silvio Berlusconi o con il Salvini dei bei tempi e il danno culturale è stato immenso. Bisogna fare il possibile perché non succeda di nuovo, toccando stavolta il livello più basso. E più pericoloso.