Cultura

La macchina del consenso

La macchina del consensoMussolini con un piccolo balilla

Intervista Il revisionismo del fascismo passò anche per la propaganda dei settimanali popolari. Parla Mimmo Franzinelli, oggi al festival "E' storia", a Gorizia

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 24 maggio 2013

Nel secondo dopoguerra, osserva Mimmo Franzinelli, i settimanali popolari hanno contribuito in modo determinante a riadattare al contesto la figura di Benito Mussolini, limando ogni spigolatura che fuoriuscisse da una precisa cornice rassicurante. Per un ventennio la sua immagine «era stata somministrata agli italiani a senso unico, secondo precise direttive ministeriali scandite dalle ’veline’ recapitate ai direttori di quotidiani e periodici, col risultato di inculcare nella popolazione una visione del dittatore destinata, almeno in parte, a sopravvivergli».
È la macchina della costruzione del consenso, non meno spaventosa rispetto a quella di repressione del dissenso che lo storico Franzinelli ha studiato in un volume chiave, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista (Bollati Boringhieri, 1999) e proseguito in un lavoro decennale, con Delatori. Spie e confidenti anonimi: l’arma segreta del regime (Mondadori, 2001) o Il Duce proibito (Mondadori, 2003). Crollato il regime, con il ritorno della libertà di stampa, ricorda Franzinelli, il testimone è passato alle riviste popolari di ampia tiratura, come Oggi o Gente su cui scriveva l’ex repubblichino Giorgio Pisanò.
Attraverso queste riviste, con articoli dal tono deliberatamente divulgativo e basso si affermano o si riaffermano quelle «verità» a bassa frequenza che, filtrate dalla «memoria indulgente» degli italiani, hanno stratificato l’immagine collettivamente condivisa di un «dittatore risoluto ma bonario, disinteressato ad arricchirsi, capace di grande generosità verso i suoi nemici e i loro familiari». Abbiamo incontrato Franzinelli a Gorizia, a margine del Festival «È Storia» che si apre oggi e nella mattinata (ore 11), lo vedrà impegnato in un dibattito titolato Achtung Banditen?, dedicato alla guerra partigiana e alla critica dei revisionismi «sottotraccia».

Sul piano della vulgata i conti con Mussolini sembra non si chiudano mai. C’è sempre una polemica, un commento benevolo, un articolo all’apparenza ben informato o, peggio, un «documento» che crediamo di saper codificare nelle sue linee più elementari e riapre non certo la questione storiografica ma qualcosa di cui il fare dello storico non può comunque non tener conto. Viviamo in giorni in cui la decontestualizzazione banalizzante è la norma. Eppure, questo processo arriva da lontano e segue una linea precisa, che va affrontata. Soprattutto oggi, in un contesto editoriale sempre più effimero e privo di memoria. Dal suo primo libro, «Il riarmo dello spirito» (1991) fino al «Prigioniero di Salò. Mussolini e la tragedia italiana del 1943-1945» (Mondadori, 2012) lei si è interrogato su questa sottile linea nera, per citare il titolo di un altro suo lavoro dedicato al neofascismo e ai presupposti della Strage di Piazza della Loggia a Brescia. Sempre attenendoci a una certa vulgata gli storici non dovrebbero occuparsi del presente. È un ragionamento banale, ma ha una sua efficacia se ha consegnato gran parte del discorso sulla Repubblica Sociale di Salò a una memorialistica e a una polemica che, in fondo, non si discosta troppo dalle tesi autoassolutorie sulla «repubblica necessaria» espresse da due ex ministri come Piero Pisenti e Graziani….

Nel mio lavoro parto sempre dal presente. Parto, intendo dire, da un interrogativo che il presente mi pone, dalle questioni lasciate aperte e da quelle chiuse male. Nel caso del Prigioniero di Salò, l’interrogativo posto dal presente è semplice e al tempo stesso disarmante: come è possibile che ancora oggi, nel 2013, tra i nostri ragazzi ci sia un’apertura di fiducia verso quel Mussolini che, d’altronde, non conoscono? Qual è, allora, il Mussolini che conoscono? Che cosa è stato loro trasmesso? È la stessa immagine trasmessa a suo tempo da un antifascista pentito come Carlo Silvestri, che scrisse di un Mussolini patriota, talmente patriota da spingere il proprio eroismo fino a immolarsi per gli italiani? Che immagine hanno i nostri ragazzi di lui? Di un uomo che fa da argine, attraverso la cosiddetta «repubblica necessaria» all’avanzata del mostro tedesco?
Assistiamo a un evidente cortocircuito, perché da un lato la ricerca storiografica procede, dall’altro arretra la consapevolezza critica di molti operatori della comunicazione e dei saperi tutti, intesi in senso lato. Procedendo a ritroso ho cercato di ripercorrere i canali informativi che hanno portato a questo cortocircuito storico. Risalendo dai giornali popolari – chiamiamoli così – e di costume, dalle dispense di storia che di tanto in tanto ancora fanno bella mostra di sé in qualche edicola non è difficile discendere alla stampa di regime e all’immensa macchina di costruzione del consenso articolata da Mussolini e dai suoi.

Mi sono reso conto con sconcerto che esiste un vero e proprio filo nero che parte dall’imponente organizzazione propagandistica che Mussolini mise all’opera (pensiamo al Ministero della Stampa e della Propaganda o al Ministero della Cultura popolare, per esempio) e all’uso molto professionale che questa macchina fece della fotografia. Questo uso spesso indiscriminato e altrettanto spesso spregiudicato delle immagini oggi trova una sua appendice, quando in certe pubblicazioni si ripresentano le stesse immagini, decontestualizzandole. Certe fotografie di miliziani e militari a suo tempo pubblicate da Pisanò, tanto per fare un esempio, servivano per dare l’idea che «eravamo forti, eravamo tanti». Sappiamo che non è così, nella RSI non ci fu solo il tanto decantato fascino dei vinti e dei volontari, ci furono, come ben sappiamo ma altrettanto spesso dimentichiamo, costrizioni di massa ed esecuzioni per i renitenti. Purtroppo a questa situazione hanno contribuito anche storici e giornalisti antifascisti – chiamiamoli così per semplicità, poi ci sarebbe da problematizzare la definizione – che nei decenni scorsi hanno amplificato una dimensione retorica opposta a quella di cui stiamo parlando.
Una dimensione che non regge a un serio esame delle fonti e delle situazioni. Inconsapevolmente, in questo modo, hanno aperto la strada a un revisionismo a bassa frequenza ma a alta intensità di consumo. Giusto per fare un esempio, ricordiamo Giampaolo Pansa che in giovane età fu uno tra i costruttori di una certa vulgata antifascista e, anni dopo, ha smontato la vulgata che lui stesso aveva contribuito a costruire con grande successo di pubblico e spesso, ahinoi, anche di critica. Su ben altro fronte critico dovremmo ricordare l’affermazione di Gramsci, che la verità è rivoluzionaria. Ma lo si è spesso dimenticato, sacrificando tutto a tatticismi e a egocentrismi anche questi amorali e dagli effetti demoralizzanti.

Nella villa di Gargnano, al Mussolini che interpreta una parte in cui non crede e che lo distacca sempre più dalla realtà – la «grande realtà politica» di cui parlava la Petacci – c’è però un Mussolini che crede ancora in qualcosa: nell’immagine che proietterà di sé, in un futuro per noi è il presente…

Al crollo fragoroso e sanguinoso del fascismo sono sopravvissute certamente due cose che io vedo in contatto tra loro. La prima è il «mito» di Mussolini e la seconda è lo stereotipo di propaganda che il regime aveva creato. Dopo di che ho avuto una straordinaria fortuna. All’Archivio Centrale dello Stato mi sono imbattuto nell’Archivio di Claretta Petacci. Un archivio rimasto «sigillato» fino a pochi anni fa e di cui Renzo De Felice non ha potuto tener conto. Lettere, note, diari di straordinaria importanza relativi al periodo tra il 1943 e il 1945.
Attraverso quel materiale si tratta – e questo ho cercato di fare – di rivisitare i «personaggi» a partire da quella realtà che è la loro autodescrizione. Coglierli nel vivo, da dentro, ponendo l’accento su ciò che dai documenti emerge: l’estrema contraddittorietà e l’estremo distacco dalla realtà di un dittatore sempre più consegnato alla maschera del proprio egocentrismo.
Ho quindi messo a raffronto queste di immagini, quella del mito e quella dello «stereotipo», ovvero la costruzione diciamo così «utopica» del «grande padre» e la realtà miserevole di un uomo allo sbando che illude e manda allo sbaraglio i giovani. Li manda a morire per una causa in cui lui per primo non crede. Con un piccolo particolare: Mussolini non crede alla causa, o almeno non ci crede più a partire da un dato momento, ma con lucidità infernale proietta la propria immagine nell’avvenire. In una sua lettera alla Petacci non a caso afferma che ciò che conta davvero non è «ciò che sono oggi»- Mussolini sa e dichiara di non essere nulla, di essere al massimo lo zimbello dei tedeschi che «gira a folle» attorno a una stanza.
Conta però, questo afferma Mussolini, «l’immagine che di me saprò proiettare». In questo è riuscito. E ci è riuscito, ecco la cosa ancor più sconcertante, attraverso un comportamento che è senz’altro quello di un codardo. Pensiamo alla fuga vestito da tedesco e all’uccisione, secondo la sua «logica», tutt’altro che dignitosa. Tutto questo non dico non sia conosciuto, dico che nella vulgata che segna i nostri tempi è un fatto messo tra parentesi e talvolta sopraffatto dall’immagine di un Mussolini coerente e coraggioso, quello del «se avanzo seguitemi» via con le chiacchiere. La vulgata storica si è inserita, amplificandola e arricchendola, in questa linea nera, anzi nerissima che giunge fino a noi.

Questa linea nera torna anche nella pubblicazione vicenda della pubblicazione dei diari «veri o presunti», in realtà clamorosamente falsi, di Mussolini. Lei dedicò un volume a questo, «Autopsia di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia» (Bollati Boringhieri, 2011)…

Quando entriamo in un’edicola – ne accennavo prima – o in certe librerie si trovano dispense, libri, libretti che se guardati con occhio attento altro non sono che una prosecuzione della propaganda fascista. Libri, libretti e dispense che vanno in mano non certo allo storico o al critico, ma a persone che non hanno strumenti per decodificarli. Oggi, questa frontiera è sguarnita. Gli storici, tranne rare eccezione, sono molto distratti rispetto a questa situazione. Dobbiamo invece smontare questo materiale, disinnescarlo. La critica del nostro presente fa parte del nostro lavoro. Paradossale e vergognosa è stata la situazione di falsi acclarati come i cosiddetti diari di Mussolini. Paradossale e vergognosa perché questi falsi sono stati avvalorati non tanto da Marcello Dell’Utri, che si presenta per quello che è e non si nasconde nemmeno, ma da una casa editrice prestigiosa che presta il proprio catalogo alla pubblicazione di cinque, ripeto cinque volumi di falsi presentati in forma «prestigiosa». Mi pare che di materia per cui indignarsi ce ne sia. Ho l’impressione che anche tra i responsabili delle nostre case editrici manchi non solo consapevolezza, ma addirittura coscienza civile.
La scommessa di Marcello Dell’Utri si basava d’altronde su questo assunto: non potrò dimostrare che i diari sono veri, ma voi non potrete mai dimostrare che sono falsi. Ma gli è andata male. Questo atteggiamento è però segno di una dimensione amorale e di un cinismo di fondo che si incrocia, però, con quello che è il «dio» mercato. Molti editori, sedotti dal marketing e dalle ricerche del settore vendita, capiscono che c’è spazio per Mussolini. Se il pubblico «chiede» Mussolini – questa è la loro logica – allora devi dare al pubblico ciò che chiede, perché l’editoria è in crisi, perché da che mondo è mondo devi intercettare una domanda per sostenere l’offerta e via discorrendo. Ma il pubblico che cosa vuole? Vuole questa immagine rassicurante del «buon padre». La dinamica è elementare, persino banale e ridicola, ma è questa. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
Tra queste conseguenza c’è anche la comprensione di che cosa sia un archivio… Oggi, storici a parte, chi sa che cos’è un archivio? Forse, come prevedeva Talleyrand, la storia la faranno solo gli storici e gli agenti dei servizi di sicurezza. Agli non rimarrà che galleggiare in un mare di scorie mediatizzate e rivestite da verità ufficiali…
Partiamo da un dato di fatto: il fascismo ha costruito archivi enormi perché come tutte le dittature pensava di essere eterno e non prefigurava un uso contraddittori dei documenti rispetto alle sue finalità. Oggi, però, le difficoltà sono altre. Da un lato, in Italia a differenza degli Stati Uniti dove i documenti vengono periodicamente desegretati, c’è una gestione che definirei «mafiosa» degli archivi. Noi storici dobbiamo lottare con gli archivisti, con le normative, con la legge sulla privacy.
La storia contemporanea probabilmente dà fastidio. Dall’altro lato, però, c’è il problema non minore e non meno sconcertante della consapevolezza critico-storica di chi accede a quegli archivi. Penso a molti giornalisti camuffati da storici che, dinanzi a un documento, ragionano banalmente in questi termini: un documento «è» un documento e quindi nel documento c’è la verità. In realtà, proprio gli archivi fascisti ci mostrano che al loro interno ci sono documenti autofalsificati o tendenziosi o con finalità ricattatorie. La sfida che l’archivio pone allo storico è quella della contestualizzazione e del distacco critico. Bisogna capire che tipo di documento si ha in mano, non basta averlo in mano.
Le verità ufficiali, oggi, sono verità banali, pericolosamente banali. Dovremmo recuperare la pratica della controinformazione che è fortemente demistificante e demitizzante. Quando la memoria si ufficializza c’è infatti un processo di trasformazione per creare una forma nuova di vulgata. Il compito dello storico è di essere sempre in posizione critica rispetto al potere, altrimenti suoni la fanfara di chi è al potere, anche qui vediamo – su fronti opposti – con quali eccelsi risultati.

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