Io recluso tra i migranti, smacco all’indifferenza
Lampedusa Dopo la protesta eclatante del parlamentare del Pd, liberi 200 migranti detenuti illegalmente nel Centro di Contrada Imbriacola. Lo stesso Khalid Chaouki racconta per "il manifesto " come è riuscito a sbloccare lo stallo e a mettere il governo Letta alle strette. «I miei giorni con loro sono stati un dono»
Lampedusa Dopo la protesta eclatante del parlamentare del Pd, liberi 200 migranti detenuti illegalmente nel Centro di Contrada Imbriacola. Lo stesso Khalid Chaouki racconta per "il manifesto " come è riuscito a sbloccare lo stallo e a mettere il governo Letta alle strette. «I miei giorni con loro sono stati un dono»
È una mattina livida quella del 23 dicembre. Sono arrivato a Lampedusa la sera prima, accolto all’aeroporto da Paola La Rosa, un’attivista del Comitato 3 Ottobre, nato all’indomani della tragedia che ha visto la morte di 366 migranti a largo dell’isola di Lampedusa. Sono passate da poco le 10,30 del mattino quando con Paola entriamo dentro il Cspa di Lampedusa. Una pioggia sottile e incessante ci accompagna, il centro a prima vista fa paura, non si vede nessuno in giro, solo il grigio della costruzione che s’intona perfettamente al cielo plumbeo.
Dopo una mezz’ora qualcosa cambia e un sole incerto illumina gli spazi della struttura, c’è anche chi fa capolino in cortile, alcuni uomini e qualche donna che esce dalle camerate per venirci incontro. Ci sono pure gli operatori di Lampedusa Accoglienza e subito ci fanno fare un giro per mostrarci le condizioni della struttura che sono pessime, peggiorate rispetto a quanto ricordavo.
Diverse camerate non sono utilizzabili perché ci piove dentro, montagne di materassi giacciono ammassati uno sull’altro a formare alte montagne che sfiorano il soffitto, le porte d’ingresso sono sfondate! Paola e io siamo ammutoliti di fronte a quello che ci viene mostrato. «Facciamo quello che possiamo, con i mezzi che abbiamo», ci spiegano gli operatori.
Un senso di angoscia mi prende il cuore. Questa è l’accoglienza di cui siamo capaci? No, l’Italia che io conosco può e deve fare di più. L’Italia che ho imparato ad amare dai racconti di mio padre, quando ancora ero in Marocco, non è questa che vedo a Lampedusa. È un’Italia forte e solidale, l’Italia delle opportunità, del lavoro e delle strette di mano franche e sincere.
Sono davvero dispiaciuto per quello che si presenta ai miei occhi. Lo squallore che ci circonda mi ferisce. Voglio capire e dunque domando: «Alle persone che sono qui da oltre 96 ore è stato mai notificato un provvedimento giudiziario restrittivo della loro libertà?». «No» mi rispondono. «Quindi sono tenute qui anche da oltre due mesi – senza che un giudice lo abbia disposto – solo perché il Ministero degli Interni non ne ha ordinato il trasferimento?». «Sì».
Scopro inoltre che queste persone non sono libere di uscire e che tra loro vi sono alcuni dei sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre.
I giorni sprecati lì dentro
A un certo punto mi viene incontro Khalid, il ragazzo siriano che ha denunciato con il suo video la vergogna delle docce anti scabbia all’aperto, parliamo in arabo e lui nella sua lingua subito si rilassa, si sente a casa. Mi racconta delle sue giornate al centro, di quante sono lunghe e prive di senso, delle energie, dei sogni e dei giorni sprecati lì dentro. In quel momento capisco che se la mia visita si limita a quella giornata, se salgo sul volo delle 16 che ho già prenotato per il ritorno, qui non cambierà nulla.
Sì, magari posso essere l’ennesima voce che denuncia, ma non sarebbe servito a molto altro, gli occhi di Khalid mi chiedevano altro, mi chiedevano un gesto, una presa di posizione.
È stato un attimo. Dico a Khalid e agli altri tre siriani del gruppetto: «Resto con voi, non me ne vado, non vi lascio soli. Resto finché qualcosa non si sblocca». Si guardano tra loro, increduli, pensano forse non aver inteso bene, ma io l’ho detto nella loro lingua e dunque sanno che si possono fidare di quel che hanno sentito.
Comunico la mia decisione anche a Paola, questa volta in italiano, e lei mi sorride, complice. Intanto i quattro siriani iniziano a discutere su dove io debba dormire, ci tengono a ospitarmi nella loro stanza. Acconsento con piacere.
I guizzi di gioia che leggo nei loro occhi mi confermano nella mia decisione: bisogna prendere posizione, scegliere, agire, mi ripeto. E mi vengono in mente le parole forti, dense di azione e senso pratico di quel grande politico e uomo che fu Gramsci: «Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti». Le parole di Gramsci mi scaldano, nel freddo del centro di Lampedusa, mi rasserenano nella mia decisione.
Mi vengono incontro, nel frattempo alcuni operatori, i mediatori che parlano arabo e tigrino, inglese e francese. Vogliono spiegarmi e spiegarsi, vogliono raccontare il loro punto di vista. «Quello che è successo è una vergogna, un grosso errore, ma pur nella sua gravità – mi dicono – non può cancellare i dieci anni di lavoro che abbiamo svolto qui dentro. Lo vedete in che condizioni lavoriamo, ore le avete sotto gli occhi». Anche loro mi sembrano soddisfatti della mia decisione di rimanere, dico loro che voglio stare là dentro finché non sarà ristabilita la legalità, finché il Governo non darà risposte concrete.
Mia madre mi diceva sempre che l’unico modo per cambiare le cose è rimboccarsi le maniche, sporcarsi le mani, provare a raddrizzare ciò che ci sembra storto. Mancano due giorni a Natale e io, musulmano, che ho passato un anno di scuola dalle suore a Misurina, qualcosa ne so della religione cattolica e del senso di questi giorni per milioni di cristiani. Il centro di prima accoglienza di Lampedusa mi sembra subito un presepe moderno. «Non c’era posto per loro nell’albergo», il figlio di Dio per i cristiani nasce dentro ad una grotta, sceglie subito da che parte stare, si incarna proprio là dove l’umanità è più ferita.
Subito sono attorniato da loro, dagli “ospiti” del centro, che vogliono presentarsi, vogliono raccontare la propria storia, vogliono protestare anche. C’è parecchia rabbia, desiderio di essere ascoltati, di tirare fuori la propria umanità. Li ascolto in silenzio, faccio parlare le loro frustrazioni, tocco con mano le loro speranze, molte sono anche mie, guardo negli occhi un’umanità piena di energie, che anni e anni di leggi ingiuste hanno piegato, ferito, avvilito. Chi pensa di avere ancora qualche argomento a favore di quell’orrore che è la Bossi-Fini e del pacchetto Sicurezza dovrebbe venire qui, provare a sostenere il loro sguardo pulito che reclama giustizia.
L’Italia ha bisogno di una buona legge che regoli l’immigrazione, che ci faccia uscire dal “cattivismo”, dalla politica della paura, dalla stupidità di norme e codici che non consentono a chi nasce o cresce in Italia di dirsi italiano, di concorrere ai bandi pubblici, di votare, di candidarsi. Leggi che maltrattano chi chiede asilo e rifugio nel nostro Paese. L’Italia ha bisogno di riscoprire negli immigrati una forza, una risorsa economica, intellettuale, umana.
Una catena di telefonate
Chiamo subito il vice ministro degli Interni Filippo Bubbico, è un uomo che stimo, capisce perfettamente il mio gesto e si mette a disposizione. Ho sentito anche molti altri, una catena di telefonate, spiegazioni, discussioni.
Non è stato semplice sbloccare una situazione in stallo da mesi e ormai al collasso, ma dopo la prima notte al centro, la mattina del 24 sono arrivati i militari per sgomberare subito gli oltre 200 migranti ospiti del centro. Mi ha riempito il cuore di gioia vedere tra loro il Caporalmaggiore Capo Pala Romano, di origine eritrea, e la giovane Ahlame Boufessas, soldatessa italiana di origine marocchina. Le seconde generazioni dunque ci sono, in molti prestano servizio al Paese che li ha adottati, o che li ha visti nascere, quel Paese che fa ancora tanta fatica a riconoscerli come figli ma che loro riconoscono come Madre Patria.
Restano al Centro 17 persone, profughi eritrei e siriani, con loro mi sono fermato sino alla giornata del 25 dicembre. Finché non è arrivata la Croce Rossa italiana, un’ottima equipe pronta a fornire aiuto e assistenza qualificata. Medici e psicologi che saranno al loro fianco 24 ore su 24. Ora però la situazione è molto cambiata, il centro si è svuotato, gli ospiti del centro sono senz’altro più sereni. Capiscono il senso del mio impegno e si fidano delle mie parole. Continuerò a fare pressioni per un arrivo rapido dei giudici per raccogliere le loro testimonianze contro gli scafisti.
I miei giorni dentro al Centro Accoglienza di Lampedusa sono stati un dono per me. Un’occasione vera di confronto con quell’umanità migrante sulla cui pelle sono state fatte molte leggi e prese molte decisioni. Ecco, io nel mio nuovo ruolo di parlamentare sono un legislatore, e credo sia importante, anzi, necessario guardare negli occhi le persone, pesare la loro dignità, prima di scrivere o presentare leggi che le riguardano. Dopo Lampedusa, ora dobbiamo scrivere una nuova legge. Una legge sull’immigrazione dal carattere umano e dalla parte dei diritti dei rifugiati.
Ora non possiamo più dire di non sapere. Grazie a tutti coloro che sono stati con me con i loro messaggi, le loro preghiere e la loro testimonianza. Andiamo avanti!
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