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«I tre della El Hiblu» nel limbo di Malta

«I tre della El Hiblu» nel limbo di MaltaI tre ragazzi in una strada dell’isola di Malta – Joanna Demarco / Amnesty International

Mediterraneo Hanno attraversato il mare a 15, 16 e 19 anni, ma all’arrivo sono finiti in prigione. L’accusa: aver dirottato la nave che li ha soccorsi per impedire di essere riportati in Libia. Rischiano il carcere a vita

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 21 aprile 2021

Sull’isola di Malta ci sono tre ragazzi che rischiano di passare tutta la vita in prigione. In Europa sono conosciuti come «i tre della El Hiblu», dal nome della nave che speravano mettesse fine ai loro problemi. Sono accusati di nove crimini, tra cui spiccano: atti di terrorismo, dirottamento e sequestro di persona con lo scopo di ricattare lo Stato. Per Amnesty International è uno dei dieci casi più importanti di richiesta di giustizia a livello mondiale.

Il 25 marzo 2019 hanno 15, 16 e 19 anni. Di notte, come quando si fugge da qualcuno o qualcosa, salgono su un gommone con altre 110 persone e si lasciano alle spalle le coste di Garabulli, 70 chilometri a ovest di Tripoli. Poche ore dopo il mezzo è sgonfio, dai fianchi entra acqua e il motore spinge a fatica. Qualcuno piange. «Ero sicuro di morire. Intorno non c’erano segni di vita. Il gommone non ce la faceva più – racconta il più piccolo dei tre, che chiameremo Bakary – Poi è arrivato un aereo. Ci è passato sulla testa due volte. La terza era seguito da qualcosa». Il trattino rosso all’orizzonte diventa sempre più grande: è lo scafo della nave El Hiblu. «Siamo salvi», pensano i migranti. Ma a volte perfino la felicità contiene la paura: temono di essere riportati in Libia. Chiedono rassicurazioni all’equipaggio.

IN QUEL MOMENTO Bakary si trova a oltre 3.700 chilometri da N’zerekore, la città della Guinea dove è nato. L’ha lasciata quasi due anni prima, andando in Mali e poi in Algeria. «Lì facevo le pulizie in un ufficio vicino a un cantiere. Vivevo in pace – racconta – Poi sono iniziate le retate per rimpatriare gli stranieri. Vedevo gente scappare dai tetti, sentivo storie di persone abbandonate nel deserto. Avevo paura. Un amico mi ha proposto di andare in Libia. Siamo partiti».

La realtà, però, è diversa dalle aspettative. «Rischiavo di prendere un proiettile o finire in prigione in qualsiasi momento. Fuori c’era la guerra. Ho lavorato alcuni mesi in un negozio, ma il proprietario non mi pagava. Come compenso mi ha proposto la traversata. Ho accettato».

MENTRE GUARDA la El Hiblu dal basso verso l’alto, Bakary ha paura dell’eco della parola «Libia». Per gli altri equivale a ricordi ancora più duri: detenzione, violenze, torture. Sei uomini – due della Guinea, due della Costa d’Avorio, uno del Mali e uno del Sudan – non vogliono rischiare di essere respinti e decidono di continuare sul gommone sgonfio. In 107 salgono a bordo. La nave finge di muoversi verso nord: i migranti non sanno che l’aereo, dell’operazione Sophia-Eunavfor Med, dopo il soccorso ha ordinato al capitano di andare a Tripoli, assicurando l’aiuto della «guardia costiera» libica. La mattina seguente vedono terra e accendono i cellulari: compare un messaggio in arabo. Capiscono.

CIÒ CHE SUCCEDE dopo è al centro del processo ai «tre della El Hiblu». Da due anni viene regolarmente rimandato. L’ultima udienza è stata annullata il 15 aprile scorso. L’accusa sostiene che gli imputati abbiano dirottato la nave e costretto il capitano a invertire la rotta con minacce e violenze. Secondo la difesa, a bordo c’è stata solo una protesta e l’unica colpa dei tre è di essere rimasti nella cabina di comando per controllare la direzione. Bakary era lì per tradurre: era l’unico che parlava inglese.

«Abbiamo capito cosa stava accadendo e ci siamo messi a gridare. Il capitano si è chiuso nella cabina. Tutte le donne piangevano. L’ufficiale non voleva parlarci. Le persone gli facevano segno di aprire. Quando ci ha visto urlare è uscito fuori e ci ha detto che saremmo andati a Malta», ha raccontato il 4 marzo di quest’anno Fatima, prima e unica testimone oculare ascoltata dal tribunale. Durante la navigazione, però, il capitano ha dato una versione diversa, dicendo alle autorità maltesi che la situazione era fuori controllo, la nave danneggiata a sprangate e alcuni membri dell’equipaggio feriti.

DA ROMA l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini ha sentenziato: «Sono pirati, per loro porti chiusi». Da La Valletta, invece, hanno mandato l’esercito. Così soldati in mimetica, armi pesanti e passamontagna hanno abbordato la El Hiblu. «Ho avuto paura dei militari, ma ero felice. Pensavo fosse il modo di accogliere le persone in Europa. Mi sono detto: è fatta», ricorda Bakary. Né l’esercito, né la polizia maltese hanno trovato segni di violenza contro cose o persone.

«Anche il capitano e i membri dell’equipaggio hanno confermato davanti ai giudici che non c’erano feriti», dice Neil Falzon, avvocato dei tre ragazzi arrestati all’arrivo e tenuti in carcere 7 mesi e 20 giorni. Sono tornati in libertà il 20 novembre 2019. Da allora hanno l’obbligo di firma quotidiano. Il capitano della El Hiblu, invece, è potuto ripartire poco dopo i fatti, nonostante qualcuno abbia sostenuto che delle sue comunicazioni allarmistiche non si fosse trovato riscontro e alla fine siano servite a evitargli di riportare i migranti a Tripoli scaricando ogni responsabilità. Il caso, infatti, è una di quelle situazioni senza uscita causate dalla gestione europea dei soccorsi nel Mediterraneo centrale. Anche altre volte le autorità hanno chiesto a navi commerciali di macchiarsi di un crimine: sbarcare i naufraghi in Libia nonostante non sia un porto sicuro. Il New York Times ha parlato di almeno 30 «respingimenti privatizzati» tra il 2018 e marzo del 2020, stimando in 1.800 i migranti consegnati ai libici.

I tre ragazzi si stringono, foto di Joanna Demarco/Amnesty International

A LUGLIO 2018, quando al Viminale c’era Salvini, si sono registrati tre episodi. Il 2 del mese 150 persone sono state ricondotte a Tripoli dalla Asso 29. Cinque cittadini eritrei sostenuti da Asgi e Amnesty hanno recentemente avviato un giudizio nei confronti delle autorità italiane, dell’armatore Augusta Offshore e del comandante della nave. L’8 luglio il rimorchiatore italiano Vos Thalassa ha soccorso 67 persone, provando a riportarle indietro. Solo una rivolta lo ha impedito. Un cittadino sudanese e uno ghanese sono stati assolti in primo grado dalle accuse di resistenza e violenza a pubblico ufficiale, con diverse aggravanti, perché il giudice ha riconosciuto la legittima difesa: in Libia avrebbero rischiato la vita. La sentenza è stata ribaltata in appello e adesso si attende la Cassazione. Il 20 dello stesso mese altre 101 persone sono finite sulle coste nordafricane dopo un soccorso della Asso 28. Comandante e armatore, la stessa Augusta Offshore, sono stati rinviati a giudizio dalla procura di Napoli.

A MALTA il processo della El Hiblu è il primo in cui dei migranti sono imputati per aver impedito un respingimento illegale. «Il contesto politico è quello di un’isola piccolissima che si sente invasa dai migranti e abbandonata dall’Ue. E pensa di dover fare qualsiasi cosa per bloccare gli arrivi», afferma Falzon, che è anche direttore della Ong per i diritti umani Aditus. Malta ha una superficie di 316 km² e mezzo milione di abitanti. È grande un quarto del territorio di Roma Capitale e ha un centoventesimo della popolazione italiana. Meno di un millesimo di quella europea.

«A settembre 2020 ospitava 13mila rifugiati e richiedenti asilo, tra i numeri pro capite più alti nell’Ue. Gli arrivi dal mare sono aumentati da 1.445 nel 2018 a 3.405 nel 2019», si legge nel rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa pubblicato a marzo scorso. Lo studio denuncia le «condizioni inumane e degradanti» dei centri d’accoglienza: detenzione prolungata, mancanza di tutela dei vulnerabili, poca comunicazione con l’esterno. Lo scorso anno in quelle strutture 93 persone hanno commesso atti di autolesionismo o tentato il suicidio: il 4% di tutte quelle arrivate via mare (nel 2018 erano l’1%). A giugno 2020 Malta ha firmato un nuovo memorandum con le autorità libiche, di cui non si conoscono tutti i dettagli, per aumentare la cooperazione anti-migranti. Nell’enorme zona Sar di sua competenza sono stati documentati ritardi, omissioni di soccorso e respingimenti per procura verso Tripoli.

«SONO MOLTO preoccupato, ma spero che finisca tutto. Non abbiamo fatto nulla», dice Bakary. A sostegno dei ragazzi è attiva la campagna «Free The El Hiblu Three». La supportano, tra gli altri, African Media Malta, Alarm Phone, Sea-Watch e Mediterranea. «Malta dovrebbe chiudere il caso. Nessuno deve essere punito per opporsi al ritorno alle torture in Libia», ha dichiarato nel secondo anniversario degli arresti Nils Muiz, direttore regionale per l’Europa di Amnesty. Contro le accuse si sono pronunciati anche l’Unchr e l’arcivescovo Charles Scicluna.

«I tre della El Hiblu» restano in attesa di processo. Gli altri 104 sbarcati con loro sono liberi. Dei sei uomini che hanno continuato il viaggio sul gommone sgonfio, invece, non si è saputo mai più nulla.

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Per gli aggiornamenti via Twitter: @ElHiblu3

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