Il precariato made in Tokyo
Giappone La crisi ha colpito duro gli haken, ovvero i lavoratori atipici - precari, freelance - del Sol Levante, mettendo in soffitta l'ex garantito «lavoro a vita»
Giappone La crisi ha colpito duro gli haken, ovvero i lavoratori atipici - precari, freelance - del Sol Levante, mettendo in soffitta l'ex garantito «lavoro a vita»
C’è un’immagine ancora oggi nitida nella memoria di molti lavoratori giapponesi. Capodanno 2009, Parco di Hibiya, uno delle più grandi aree verdi del centro di Tokyo. Decine di tende, un accampamento di fortuna nel freddo dell’inverno della capitale. Dentro, centinaia di haken rodosha, i lavoratori interinali, impiegati soprattutto nelle grandi aziende del settore manifatturiero.
L’immagine è una delle più rappresentative dell’immediato post-Lehman shock del settembre 2008. In seguito al più importante fallimento di una banca nella storia americana, le aziende giapponesi, in particolare quelle più grandi, hanno deciso di ridurre la produzione e quindi di ridurre il personale.
I primi a essere colpiti dai tagli sono stati proprio i cosiddetti lavoratori atipici, in particolare gli haken, i quali hanno finito per perdere non solo il proprio posto di lavoro, ma anche il posto in dormitorio assegnato dall’agenzia interinale. ll toshikoshi haken mura, il villaggio di Capodanno dei lavoratori interinali, è diventato simbolo della trasformazione del mercato del lavoro in Giappone. Un paese che a partire dagli anni ’60 aveva costruito un intero sistema di relazioni industriali e sociali sull’ideale dello shushin koyo, il lavoro a vita.
Atipici giapponesi
Rispetto agli anni del boom economico e della retorica sul Giappone come futura superpotenza, molto è cambiato. Secondo i dati di luglio 2013 del ministero del Lavoro, della Salute e del Welfare, oggi i lavoratori atipici – assunti con contratti part-time o di somministrazione – in Giappone sono circa 20 milioni, oltre il 38 per cento del totale.
La situazione è cominciata a peggiorare dopo lo scoppio della bolla economica del 1991. Sotto l’amministrazione del primo ministro Junichiro Koizumi venne messa in atto una serie di riforme che hanno diversificato e frammentato il mercato del lavoro giapponese.
Il numero di lavoratori atipici, limitato fino agli anni novanta, ha cominciato a erodere il numero dei lavoratori con contratti fissi a tempo pieno (seishain). Tra coloro che non sono regolari ci sono i lavoratori a contratto (keiyaku-shain), stagionali o assunti dalle agenzie interinali (haken-shain).
E poi ci sono i freeter, termine che indica tutti coloro che hanno un lavoro irregolare, sono freelance, e in molti casi non lavorano abbastanza per mantenersi. In altri il termine è sinonimo anche di disoccupati. Alcuni sono freeter per scelta, perché decidono di non entrare sin da subito dopo la scuola nel rigido mondo del lavoro giapponese, o perché seguono le proprie aspirazioni. Altri lo fanno perché non hanno alternativa.
Il tentativo Abenomics
Da quasi vent’anni i governi giapponesi cercano di far uscire il paese da una fase di stagnazione economica di cui non si intravede la fine. L’attuale primo ministro Abe Shinzo è l’ultimo in ordine di tempo a provarci. Nel corso del 2013, la sua politica economica aggressiva, ribattezzata Abenomics, fondata su un aumento della spesa pubblica e sulla svalutazione dello yen, ha riportato in alto le esportazioni di alcuni grandi gruppi industriali del settore manifatturiero.
La speranza era in realtà che a questo facesse seguito un aumento della produzione, dei redditi e dei consumi interni. Ma così sembra non essere stato. Almeno per ora. Pesa soprattutto il deficit commerciale causato dalle importazioni massicce di combustibili fossili dall’estero per sopperire allo spegnimento delle centrali nucleari del paese dopo il disastro di Fukushima.
Abe non sembra comunque intenzionato a mollare. Tanto che, avrebbe già in mente una “fase due” della sua Abenomics che dovrebbe interessare il mondo del lavoro.
In un articolo apparso sul Japan Times a ottobre dell’anno scorso, Okunuki Hifumi, docente di diritto costituzionale e del lavoro e sindacalista, commentava la proposta del governo di costituire in alcune zone strategiche una zona speciale per l’impiego. L’ipotesi nasce con l’obiettivo di rendere il mercato del lavoro più flessibile e quindi più favorevole alle aziende straniere.
Tuttavia, diventa presto oggetto di critiche dalle parti sociali per il suo tentativo di aggirare la legislazione vigente sul licenziamento (in particolare l’articolo 16 della legge sul contratto di lavoro determina che devono sussistere“motivi obiettivi e razionali”).
Lo spettro del precariato
«La riforma di Abe andrà in due sensi», spiega ad Asia Magazine Fabiana Marinaro, ricercatrice presso il Japan Institute of Labour Policy and Training di Tokyo e l’Università di Manchester.
«In primo luogo cercherà di regolare il sistema dei seishain; in secondo luogo cercherà di mettere fine alle dinamiche di rilocazione dei lavoratori una volta che le filiali delle aziende in cui sono impiegati chiudono; infine una riforma del lavoro interinale nel senso di una maggiore deregulation. E i giapponesi sono ovviamente preoccupati».
La situazione non è facile anche perché un contratto di lavoro atipico «incide sul training professionale, sulle scelte di vita e sui consumi dei singoli lavoratori, in particolare dei più giovani, che faticano a costruirsi una famiglia». Inoltre, spesso i lavoratori non sono informati dei propri diritti di rappresentanza e finiscono vittime di trattamenti discriminatori e di abusi di potere. Infatti, continua Marinaro, «stupisce la mancanza di coscienza sindacale soprattutto nei lavoratori più giovani».
«Un nuovo spettro incombe sul Giappone», aveva predetto Okunuki a marzo 2013. «E’ quello del lavoro precario». Lo spettro non è del tutto nuovo, ma continua a terrorizzare.
Neet, Snep, freeter. Il nuovo lessico del lavoro
Lo scorso novembre si sono riuniti in una sala conferenze di Tokyo circa cento ragazzi tra i 15 e i 34 anni per creare un’azienda e diventarne membri del direttivo. L’azienda è partita a gennaio di quest’anno e si chiama Neet Co. Si chiama così perché ne fanno parte solamente Neet, quella categoria di persone sfiduciate che non studiano, lavorano o stanno facendo altre attività. L’iniziativa è stata lanciata da docenti universitari e altri specialisti, con l’obiettivo di stimolare far esprimere qeusti ragazzi in un progetto condiviso.
È un tentativo che dimostra quanto sia serio il problema. Stando agli ultimi dati del ministero del lavoro al momento in Giappone i Neet sono 630mila. La gravità del fenomeno della disoccupazione in Giappone si misura oggi in base al grado di isolamento delle sue vittime.
Secondo una ricerca pubblicata lo scorso anno dall’Università di Tokyo oltre ai Neet si sta diffondendo un altro fenomeno, quello degli Snep (solitary non-employed persons).
Sono persone tra i 20 e i 59 anni che, oltre a non lavorare, hanno tagliato i propri legami con la società: non sono sposati, non hanno amici né altre relazioni sociali. Si tratta soprattutto di maschi che non riescono a ottenere un buon lavoro e per cui la pressione sociale per il fallimento diventa un peso, tanto da decidere di interrompere tutti i rapporti con gli altri. In Giappone ce ne sono oltre 1 milione e 620mila. Passano la maggior parte del tempo a casa a dormire e a guardare la tivù.
Alcuni Snep sono anche hikikomori, cioè persone socialmente isolate che non mettono piede fuori di casa per un minimo di sei mesi, e in alcuni casi arrivano a molti anni, e che nel 2010 erano oltre 700mila per un sondaggio del governo.
Il nodo del welfare
Le conseguenze sociali della scarsa occupazione e della disoccupazione in Giappone rischiano di diventare una piaga sociale per l’arcipelago.
Dopo essere stato per decenni uno dei paesi con un’economia in grado di garantire un posto di lavoro, la difficoltà crescente dei giovani di trovare un’occupazione stabile sta diventando un problema. Soprattuto in un paese in cui parte delle proprie relazioni sociali ruota attorno all’azienda. Alcuni protestano, altri preferiscono chiudersi in sé e isolarsi.
Per tutti coloro che sono costretti a vivere senza uno stipendio fisso e sufficiente in Giappone, la vita può diventare molto difficile.
Chi è lontano dalla casa d’origine arriva a vivere nei manga kissa, caffetterie in cui si possono leggere manga e usare internet, anche in mini stanze isolate, dove passare la notte per pochi yen.
Questa situazione ha conseguenze sul sistema sanitario e pensionistico giapponese, visto che sempre più persone non contribuiscono al sistema. “Se continuerà ad aumentare così il numero degli isolati senza un lavoro”, ha detto in un’intervista Yuji Genda dell’Università di Tokyo, «il costo sociale per il Giappone diventerà incalcolabile».
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