«Dopati per lavorare di più»
Reportage Anfetamine e oppio venduti ai sikh che lavorano nell’agro pontino. Per non fargli sentire fatica e dolore. Dossier-choc di In Migrazione
Reportage Anfetamine e oppio venduti ai sikh che lavorano nell’agro pontino. Per non fargli sentire fatica e dolore. Dossier-choc di In Migrazione
L’ovetto che aiuta a sopportare la fatica costa appena dieci euro, al mercato nero dello schiavismo pontino. Singh ha due possibilità: sciogliere il contenuto direttamente in bocca o mescolarlo al chai, il tè dei sikh. Sceglie la seconda perché «se lo mangio fa più male, allo stomaco e alla gola». Così, di prima mattina, quella che gli indiani di Bellafarnia chiamano «la sostanza» cancella la fatica e i dolori del giorno precedente e si prepara ad affrontare quello che sta per cominciare «dopato come un cavallo», come sostiene Marco Omizzolo, un giovane sociologo che, con l’associazione In migrazione, ha realizzato un dossier che è un j’accuse nei confronti di padroncini e caporali del basso Lazio.
I tanti Singh dell’agro pontino – i nomi non sono di fantasia: i sikh religiosi portano tutti lo stesso cognome, che vuol dire «leone», mentre le donne prendono l’appellativo Kaur, «principessa» – da queste parti lavorano quasi tutti nelle campagne, a coltivare ortaggi in maniera intensiva, sotto il sole o in serre arroventate che si trasformano in camere a gas quando vengono costretti a spruzzare agenti chimici senza nessuna protezione. Sottoposti ad angherie e soprusi, sfruttati all’inverosimile, costretti a chiamare «padrone» il datore di lavoro, sottopagati e con il rischio di essere derubati della misera paga mentre tornano a casa in bicicletta. Come far fronte a tutto ciò? Racconta B. Singh in un italiano stentato: «Io lavoro dalle 12 alle 15 ore al giorno a raccogliere zucchine e cocomeri o con il trattore a piantare altri ortaggi. Tutti i giorni, anche la domenica. Non credo sia giusto: la fatica è troppa e i soldi pochi. Perché gli italiani non lavorano allo stesso modo? Dopo un po’ ho male alla schiena, alle mani, al collo, anche agli occhi per via della terra, del sudore, delle sostanze chimiche. Ho sempre la tosse. Il padrone è bravo ma paga poco e vuole che lavori sempre, anche la domenica. Dopo sei o sette anni di vita così, non ce la faccio più. Per questo assumo una piccola sostanza per non sentire dolore, una o due volte durante le pause dal lavoro. La prendo per non sentire la fatica, altrimenti per me sarebbe impossibile lavorare così tanto in campagna. Capisci? Troppo lavoro, troppo dolore alle mani».
Eccola qui, la nuova frontiera dello sfruttamento del lavoro migrante: gli schiavi delle campagne vengono dopati per produrre di più e non sentire la fatica. Dall’inizio dell’anno, le forze dell’ordine hanno sequestrato tra Latina, Sabaudia e Terracina una decina di chili di sostanze stupefacenti: «metanfetamine», contenute negli ovetti spacciati soprattutto dai caporali. Ma anche bulbi di papavero da oppio essiccati.
Nelle comunità sikh di Bellafarnia e di Borgo Hermada di tutto ciò si parla poco. I sikh, specie se irregolari, raramente denunciano i soprusi di cui sono vittime. Se subiscono una rapina fanno buon viso a cattivo gioco. Lo stesso accade quando il padrone non dà loro il dovuto o tarda nei pagamenti. Le droghe sono proibite dalla loro religione, chi ne fa uso è restio a parlarne e quando si decide a farlo non riesce a reprimere il senso di colpa: «Noi siamo sfruttati e non possiamo dire al padrone ora basta, perché lui ci manda via. Allora alcuni di noi pagano per avere una sostanza che non fa sentire dolore a braccia, gambe e schiena. Il padrone dice lavora ancora, lavora, lavora, forza, forza, ma dopo 14 ore nei campi com’è possibile lavorare ancora? Per la raccolta delle zucchine lavoriamo piegati tutto il giorno. La sostanza ci aiuta a vivere e lavorare meglio. Ma non tutti lo fanno: solo pochi indiani la usano. Ma a loro serve per arrivare a fine mese e portare a casa i soldi per la famiglia», dice K. Singh. Quello delle droghe sta diventando un vero e proprio problema sociale, in una comunità coesa, organizzata, «operosa e silenziosa», come la definisce Omizzolo, che mi accompagna in un tour per i campi e i paesi di questo pezzo d’India italiana. Per definirlo, ha coniato un neologismo: «Punjitalia».
Il residence Bellafarnia mare ne è la capitale. A pochi metri dalle dune di Sabaudia, lontano dalla vista delle ville dei vip, vive un pezzo della più numerosa comunità sikh dopo quella emiliana di Novellara: 12 mila abitanti censiti ufficialmente tra questo villaggio di seconde case per i villeggianti subaffittate agli immigrati e l’edilizia low cost anni ’80 che già cade a pezzi e fa da contorno al razionalismo fascista di Borgo Hermada, un pugno di abitazioni nelle campagne di Terracina. In realtà, contando gli “irregolari”, le presenze aumentano decisamente: 30 mila, forse persino di più. La Flai Cgil è arrivata a distribuire ben 40 mila casacche catarifrangenti ai lavoratori che si spostano in bicicletta, per tentare di limitare i numerosi incidenti stradali che li coinvolgono, soprattutto d’inverno, nelle strade di campagna poco illuminate.
Omizzolo ha impiegato anni per conquistarsi la fiducia della comunità, è andato con loro nei campi e ha compiuto il percorso migratorio inverso, dall’Italia al Punjab, dove ha incontrato le famiglie di provenienza e riannodato i fili della diaspora. Ha raccolto le storie di sfruttamento e, con il dossier dell’associazione In migrazione, denuncia che «per sopravvivere ai ritmi massacranti e aumentare la produzione dei padroni italiani» i lavoratori sikh «sono letteralmente costretti a doparsi con sostanze stupefacenti e antidolorifici che inibiscono la sensazione di fatica». Si tratta, spiega, di «una forma di doping vissuta con vergogna e praticata di nascosto perché contraria alla loro religione e cultura, oltre a essere severamente contrastata dalla loro comunità».
«Eppure si tratta dell’unico modo per sopravvivere ai ritmi di lavoro»: dodici ore al giorno a seminare, dissodare, raccogliere, spruzzare veleni. Per quattro euro l’ora, nel migliore dei casi, spesso costretti a subire torti, angherie e vessazioni dai datori di lavoro, a volte non pagati per mesi come sta accadendo a un gruppo di una trentina di lavoratori-schiavi che reclamano un salario che non arriva da sei mesi. Una situazione non dissimile a quelle di Rosarno, della Capitanata e degli altri luoghi dello sfruttamento delle braccia in agricoltura. Solo più taciturna, poco incline alla ribellione e meno visibile: i sikh non vivono in baraccopoli o in rifugi di fortuna e non arrivano soli come molti africani che sbarcano a Lampedusa. Si sposano tra loro – anche se, mi spiega Omizzolo, cominciano a registrarsi i primi casi di matrimoni misti, in genere tra maschi sikh e donne rumene conosciute al lavoro nei campi – molti sono qui ormai da trent’anni e i loro figli sono italiani. Le abitazioni sono ben tenute, nonostante accada che in quaranta metri quadri si ammassino fino a sei persone, i giardini sono in fiore. La domenica nel Gurdwara Singh Saba, un ex capannone agricolo trasformato in edificio religioso, è un trionfo di colori e nelle cucine comuni si fa da mangiare per tutti. Hanno anche un giornale, Punjab express, che trovo distribuito davanti a un negozietto al cui interno un anziano col turbante attende pigramente i rari visitatori.
Dillon Singh è il capo della comunità: gestisce uno spaccio di generi alimentari che vende anche capi d’abbigliamento, nella piazzetta di Bellafarnia. È un politico – in India è stato molto vicino a Indira Gandhi, la premier assassinata da due guardie del corpo sikh nel 1984 – e in questi giorni è inquieto perché il nuovo centro religioso, il cui progetto è affisso alle vetrate del tempio, si è bloccato. Questione di permessi e varianti urbanistiche, ma soprattutto di intralci burocratici frapposti dalla destra che regge il comune. È preoccupato perché dovrà dar conto alla comunità dell’utilizzo delle risorse raccolte: «Abbiamo raccolto i soldi ma non riusciamo ad andare avanti. Finirà che le persone torneranno a mandare le rimesse in Punjab invece di investire i loro guadagni in Italia», osserva sconsolato.
Alla fine di febbraio, nascosti tra i cassoni di frutta e verdura trasportati da due indiani, i finanzieri di Sabaudia hanno trovato 6 chili di bulbi di papavero e 300 grammi di anfetamina. Altri tre chili e mezzo sono stati sequestrati nel bagagliaio di un’auto ed è stata scoperta persino una piccola piantagione di papavero da oppio a Terracina. Chi gestisce il business? «Gli italiani danno la sostanza agli indiani, che a loro volta la vendono e danno i soldi agli italiani», spiega K. Singh. Vuol dire che a monte del traffico ci sarebbero datori di lavoro che affiderebbero il lavoro sporco ai caporali, consegnandogli la «roba» perché a loro volta la vendano agli schiavi delle campagne.
In alcuni casi, però, a gestire la vendita al dettaglio sono direttamente «gli italiani». A sostenerlo è H. Singh: «Conosco persone che usano questa sostanza. Le comprano da italiani e loro la utilizzano quando lavorano oppure la danno ad amici. La sciolgono nell’acqua calda e poi la bevono. Si può anche mangiare ma fa male allo stomaco e alla gola». Accade persino che, fiutata la possibilità di ritagliarsi una torta del piccolo business, alcuni lavoratori rivendano a loro volta le droghe acquistate. Racconta S. Singh: «Alcuni indiani, soprattutto giovani che lavorano nelle campagne, le comprano per non sentire i dolori, però poi ne rivendono una parte. Così fanno un po’ di soldi e allo stesso tempo la sera non si sentono stanchi e possono uscire. Da dove vengono queste sostanze? Alcuni le portano dall’India, altri le comprano da italiani». Che in questo modo guadagnano due volte, dallo spaccio e dallo sfruttamento del lavoro.
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