Denis, il puntello di Matteo. Ma anche la sua zavorra
Governo Al di là della retorica renziana, il premier esce indebolito dalla vicenda delle unioni civili. E se abbia fatto bene i conti lo si scoprirà presto
Governo Al di là della retorica renziana, il premier esce indebolito dalla vicenda delle unioni civili. E se abbia fatto bene i conti lo si scoprirà presto
Matteo Renzi esce dalla partita delle unioni civili indebolito. Ha dovuto piegarsi al ricatto di un alleato considerato sino a quel momento del tutto impotente. Una campagna che era stata pensata con la palese finalità strategica di riconquistare consensi a sinistra in vista delle comunali si è conclusa, da quel punto di vista, disastrosamente. Infine, il premier ha dovuto registrare, nel momento meno opportuno, l’ingresso semi-ufficiale dei mercenari di Denis Verdini nella maggioranza. Che prima o poi dovesse accadere era inevitabile, ma certo non ora, non alla vigilia del voto amministrativo, non su una legge già condizionata dai rappresentanti del cattolicesimo più reazionario.
Che questo esito non fosse inevitabile, aldilà del bombardamento propagandistico teso ad addossare ogni responsabilità al Movimento 5 Stelle, è certo. È vero che i pentastellati erano stati oggetto di fortissime pressioni da parte dei vescovi, ma è anche vero che Gianroberto Casaleggio aveva garantito loro solo la resistenza sul piano procedurale, confermando che sul merito della stepchild adoption i suoi senatori avrebbero deciso per conto loro. La legge, senza stralcio e fiducia, sarebbe passata nella sua versione originaria.
In parte Renzi ha giocato sulla difensiva. Temeva non una bocciatura del ddl ma l’approvazione di qualche emendamento subdolo proveniente dall’interno del suo partito, che lo avrebbe messo in una posizione ancor più difficile, senza nemmeno potersi vantare di aver imposto la legge. Ma l’elemento determinante è stato probabilmente un altro. Renzi sa di essere sotto assedio. Il rischio di perdere consensi nelle urne è temibile, ma ha considerato anche più minaccioso quello di trovarsi sguarnito, con una maggioranza in frantumi e circondato da amici pronti a tradire a fronte dell’assedio dei poteri che, in Italia e in Europa, vogliono toglierselo di torno, non subito ma appena dopo il referendum.
I paragoni con il passato sono sempre tirati per i capelli. La situazione di oggi è molto diversa da quella del 2011, quando una trama europea forte di altissime sponde in Italia mise alla porta Silvio Berlusconi. Al Quirinale non siede più Giorgio Napolitano, che è ancora attivissimo ma almeno non più onnipotente. L’Europa cinque anni fa poteva ancora presentarsi con un’immagine granitica. Oggi fatica a fronteggiare il disfacimento. Infine, un nuovo colpo di mano non sarebbe probabilmente accettato dagli italiani, che subirono invece senza un fiato quello del 2011, persino con qualche sciagurato festeggiamento in nome dell’antiberlusconismo.
Ciò non toglie che l’offensiva già iniziata, e per nulla stemperata dai sorrisi diplomatici di ieri nell’incontro Juncker-Renzi, sia molto più che preoccupante. Se l’obiettivo di sfrattare Matteo Renzi da palazzo Chigi appare oggi fuori portata per chiunque, quella di mettergli il guinzaglio al collo dettandogli nel dettaglio le scelte economiche è invece un’ambizione del tutto realistica.
Con Napolitano ancora in campo come tutore degli interessi europei (proprio a lui avrebbe telefonato settimane fa Angela Merkel per chiedere di riportare all’ordine il reprobo fiorentino) e con un Pd che all’Europa ha sempre offerto una resistenza di burro, il premier ha scelto di rinsaldare prima di tutto la propria maggioranza e di puntellarsi apertamente su Verdini. È una decisione che gli costerà voti sonanti e che offre un’arma contundente all’opposizione interna al partito ma che Renzi ha comunque preferito all’eventualità di affrontare l’attacco dei poteri finanziari interni ed esterni quasi senza difese. Se abbia fatto bene i conti o no, lo si scoprirà molto presto.
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