Conquistatori dell’inutile, la rivoluzione di Yosemite in Valley uprising
Trento Film Festival «Valley Uprising» racconta la storia nascosta della controcultura californiana, mezzo secolo di incredibili ribelli alla conquista di immense pareti di granito
Trento Film Festival «Valley Uprising» racconta la storia nascosta della controcultura californiana, mezzo secolo di incredibili ribelli alla conquista di immense pareti di granito
La «rivoluzione di granito» comincia negli anni ’50, in quel dopoguerra in cui negli Stati uniti il gesto più rivoluzionario era al massimo comprarsi una falciaerba o una lavatrice. Già allora, però, ai margini della società, alcuni avevano fiutato che il vero strumento rivoluzionario era il sacco a pelo. Per viaggiare e uscire dalle suburbie ordinate dell’immensa provincia americana. E mani e piedi per andare dove nessuno era mai stato prima.
Fino a quel momento l’arrampicata era al massimo un’attività preparatoria all’alpinismo. Un allenamento per sperimentare imprese più lunghe. Ma qualcosa, anche in California, stava cambiando. E da allora gli anni ’50 sono noti in tutto il mondo della roccia come «l’età dell’oro».
Valley Uprising (Sender Films 2014, 90 minuti scritti e diretti da Peter Mortimer e Nick Rosen pluripremiati ai festival specializzati di mezzo mondo) racconta questa straordinaria (e lisergica) epopea fino ai giorni nostri.
Agli inizi, nell’«età dell’oro», si scalava piantando a martellate i chiodi nella roccia e appendendosi a scalette di fettuccia secondo i metodi sperimentati sulle Alpi. Ma il continente americano era giovane. E non aveva nulla delle ambizioni nazionalistiche europee per la conquista delle cime più alte.
In California contava – e conta – solo l’individuo. La sua forza, il suo equilibrio fisico e mentale. La sua resistenza alla fatica e alla paura. La sua personalità. Niente bandiere da quelle parti. Puro sport. «Conquistadores dell’inutile», li hanno definiti in seguito.
La valle di Yosemite riassumeva (e in parte riassume ancora oggi nonostante un boom turistico degno del Colosseo) tutto ciò che un alpinista poteva sognare: lisce pareti di granito intatte immerse in uno scenario da cartolina. Oggi come allora il grande muro di El Capitan è alto come tre Empire State Building uno sull’altro.
E a forza di centinaia di chiodi e di metri di corda, pionieri come Royal Robbins e Warren Harding, Dean Caldwell e Yvon Chouinard, diventarono i «re» della Valle, salendo su tutte le pareti principali e definendo nuovi standard della scalata su roccia. Per loro non esisteva una tradizione. Né strumenti adeguati. Così li forgiarono con le proprie mani. Inventarono soluzioni nuove, dando vita a quella che oggi è una vera industria dell’outdoor più o meno estremo. Marchi come Patagonia, North Face, Black Diamond, nascono tutti dalle scalate solitarie dei montanari emarginati di Yosemite. Nuovi tessuti e nuove leghe metalliche. Nuove forme adeguate a imprese così estreme.
Non c’è discesa possibile nell’impresa alpinistica. Una volta partiti l’unica via d’uscita è in vetta. Un biglietto di sola andata.
Quell’epoca eroica e innocente, si concluse nel 1970, con la conquista della parete del Dawn Wall da parte di Caldwell e Harding. Il film «Valley Uprising» lascia parlare i protagonisti di allora, oggi anziani, le loro facce scavate, gli occhi guizzanti che ripercorrono gioiose rivalità di gioventù, imprese immortali sul granito, l’ascesa su fessure di pietra lunghe centinaia di metri. Eroi un po’omerici un po’ ruspanti, come cowboy.
Negli anni ’70 quell’innocenza degli inizi era finita. E una nuova generazione superò i maestri. In seguito li chiamarono gli Stonemaster: Jim “the Bird” Bridwell, Ron Kauk, John Long, Dale Bard e una delle scalatrici più forti di sempre, Lynn Hill. La controcultura conquistò anche la valle. Con il suo tornado di libero amore e droghe di ogni genere. Non solo nei boschi ma anche sulle pareti l’Lsd era uno spunto in più per«salire» e ri-trovare se stessi.
A Yosemite, in quegli anni, cadde un aereo pieno di marijuana colombiana. E gli scalatori se ne impadronirono per primi, superando i ranger. Sacchi di erba da portare a valle nella neve. Ma scesi al campo, le “canne”esplodevano: l’erba era intrisa di gasolio. E così gli arrampicatori si affrettarono a smerciarla sulle due coste, autofinanziando la propria vita da homeless nella valle (all’episodio si è ispirato anche Cliffhanger, un brutto film con Stallone).
L’asticella verticale in quegli anni si alzò fino all’impossibile. Su quelle mura si compì una rivoluzione che stupì anche gli europei più diffidenti: il free climbing. L’arrampicata libera, quella che si pratica anche oggi, che usa mani e piedi e una corda solo come sicurezza in caso di caduta. Cambiò tutto. Restare appesi a 300 metri di altezza poggiando su pochi millimetri di granito è un’emozione difficilmente spiegabile a parole. Ma il film la mostra in tutto il suo sfrontato ardore visivo grazie a immagini d’epoca e foto rare.
All’inizio degli anni ’80 l’arrampicata iniziò a diventare mainstream, un argomento da talk show. L’industria dell’outdoor e dello sport scoprì un nuovo mercato giovanile. Si inizia ad arrampicare in artificiale, nelle palestre di plastica. E molti degli Stonemaster diventano professionisti simili a quelli di oggi, sportivi dotati di sponsor e ricchi di pubblicità.
Eppure gli scalatori trovarono presto un nuovo limite da superare. Un limite quasi invalicabile anche oggi: il free solo.
L’arrampicata senza corda. Se cadi sei morto. Punto. Pochissime persone al mondo riescono ad avere la forza, l’equilibrio e la concentrazione per scalare una montagna a mani nude anche per 12 ore consecutive senza nessuna possibilità di discesa.
Paradiso o inferno sono due capolinea distanti un secondo di esitazione, una roccia più scivolosa delle altre, granelli di polvere sulle mani.
Il californiano John Bachar (nella foto), biondo, forte, silenzioso, integro, un’unica fibra di muscoli e testa, è stato il capostipite di questa pratica tanto pura quanto estrema. E’ morto a 52 anni mentre scalava senza corda, come forse avrebbe sempre voluto.
«Alla fine non ricorderai il tempo passato in ufficio o a pettinare il giardino. Perciò scala quella maledetta montagna»Jack Kerouac
Oggi il «mito» di Yosemite continua. Professionisti come Cedar Wright, Dean Potter, Alex Honnold, Kevin Jorgeson, Tommy Caldwell continuano questa strana «corsa allo spazio». Si sono chiamati gli Stone Monkeys, sfrontato omaggio ai giganti del passato.
Speed climbing, bouldering, varianti sempre più estreme dell’arrampicata su pendenze impossibili, in cui anche la roccia non basta più e allora bisogna mescolarla al vuoto del cielo con piccoli paracadute che ti fanno sembrare uno scoiattolo volante (basejumping), o lunghe corde da equilibrista da circo (slackline), o arrampicare direttamente col paracadute, senza corda, come nel freebase.
«La gente viene nella Valle da più di mezzo secolo per affermare semplicemente una cosa: che niente è impossibile se ci metti cuore, visione e passione», spiega Lynn Hill nel finale del film.
Di queste star americane contemporanee, soprattutto due figure hanno di nuovo abbattuto le mura di Yosemite: Alex Honnold, il più forte free climber vivente, e il formidabile Tommy Caldwell, che insieme a Kevin Jorgeson a gennaio ha completato la prima arrampicata libera del Dawn Wall.
Non a caso entrambi due mesi fa hanno vinto il Piolet d’Or 2015 (l’Oscar dell’alpinismo) per il traverso no stop del massiccio del Fitz Roy in Patagonia.
Ma questa è un’altra storia, «perché alla fine non ricorderai il tempo passato in ufficio o a pettinare il giardino. Perciò scala quella maledetta montagna». Jack Kerouac.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento